“Il rumore del mondo”: chiacchierata con Benedetta Cibrario

 

 

 

 

 

 

 

 

Benedetta Cibrario, “Il rumore del mondo” (Mondadori) 2018

pagg 756 

€ 22,00

 

 

 

Ci sono libri che, parlando del passato, raccontano la contemporaneità: uno di questi è sicuramente “Il rumore del mondo” (Mondadori), di Benedetta Cibrario, raffinata e colta scrittrice che affida alle pagine del suo romanzo, ambientato nei primo decenni del 1800, la storia di Anne, di suo marito Prospero, del suocero Casimiro e, con loro, di un’intera società in un periodo cruciale per l’Europa e l’Italia.

La trama: lo Stato italiano non è ancora nato, ma il sentimento di unità nazionale è vivacissimo e i fermenti patriottici scuotono la penisola da Nord a Sud. La Restaurazione vuole spegnere ogni velleità rivoluzionaria e, perseguitati, molti patrioti trovano rifugio a Londra, da poco governata dalla diciannovenne regina, Vittoria, giovane ma da subito destinata a influenzare profondamente la sua epoca. In questo clima sospeso fra nuovo e vecchio, accoglienza e pregiudizio, l’oggi e il domani, si dipana la storia di Anne, giovane sposa londinese di un affascinante militare sabaudo. Lasciando, con non poca riluttanza, la sua famiglia e l’amatissima Londra per raggiungere il marito a Torino, Anne sa bene che la sua vita non sarà mai più quella vissuta nei suoi pochi diciannove anni, gli stessi della Regina: mai, però, avrebbe potuto immaginare quanto. Durante il viaggio verso il Piemonte si ammala di vaiolo: viene salvata da un medico coraggioso, ma ora che la sua delicata bellezza è deturpata dovrà ancora di più affrontare pesanti prove e radicali cambiamenti per farsi accettare da una società e una famiglia indisponibili ad accogliere altre culture. Anne non tornerà indietro, ma lavorerà duramente per ritagliarsi – malgrado sia una donna – uno spazio di dignità personale in una società estremamente maschilista e retriva. Anne deve trovare, insomma, il giusto equilibrio in un mondo che sembra averlo perso: proprio come l’Italia, in quella vigilia di Risorgimento.

In questo romanzo (“storico”, come si diceva) in cui non mancano precisi riferimenti ad avvenimenti, luoghi e personalità che abbiamo studiato sui libri di scuola, quello che colpisce è il bisogno dell’Autrice di rendere verosimili non solo nei modi, usi e costumi tutti gli innumerevoli personaggi del libro, ma il volerlo fare in maniera certosina anche nella scelta dei nomi, talvolta a lei suggeriti da lapidi, o da giornali e cronache del tempo, e dunque appartenuti a persone realmente esistite, che tuttavia Benedetta Cibrario trasforma in altro da sé, come fa con la protagonista, Anne Bacon: personalmente, trovo che questo omaggio a dimenticate persone di un lontano passato, il volerle riportare alla vita sia pure solo nella finzione narrativa, sia un gesto di commovente finezza.

L’Autrice è ben consapevole che le circa 750 pagine del romanzo impongono al lettore, anche al più veloce e disciplinato, una tempistica severa, ma ha voluto ugualmente correre il rischio di risultare anomala pubblicando un libro “lungo”: la verità è che al Lettore, alla fine, rimane la voglia di sapere ancora, e ancora, e ancora che cosa succederà e credo sia anche questa una virtù, non certo scontata, del libro.

Infine, non manca la morale della favola, alla quale il Lettore arriva spontaneamente, per logica deduzione, senza forzature di tipo alcuno: “Dove c’è emancipazione femminile, c’è anche l’emancipazione di un Paese”.

 

L’AUTORE

Benedetta Cibrario è nata a Firenze e vive a Londra. Nel 2007 esordisce con il romanzo Rossovermiglio (Feltrinelli, Premio Campiello 2008), tradotto e pubblicato in diversi Paesi, tra cui la Germania, l’Olanda, il Portogallo, la Grecia. Nel 2009 esce Sotto cieli noncuranti (Feltrinelli, Premio Rapallo Carige 2010) e nel 2011 Lo Scurnuso (Feltrinelli,). Nel 2018 pubblica con Mondadori il romanzo Il rumore del mondo”.

 

Ecco l’intervista a Benedetta Cibrario, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.

Canzone consigliata: “Ottocento”, Fabrizio De André (per la sua vis dissacratoria: l’800, a ben guardare, siamo noi…)

 

Giancarla: Siamo davanti ad un romanzo storico, il cui genere – lo dico da lettore – trovo sia fra i più impegnativi per un Autore: per scriverlo bisogna avere una solida cultura di base, fare i necessari approfondimenti, possedere talento narrativo, senza contare i molti paletti che potrebbero rendere più difficile l’espressione della creatività dello scrittore. E’ d’accordo? E, se sì, che cosa la affascina di questo genere letterario?

Benedetta Cibrario: In realtà, quando ho cominciato a scrivere il libro – sembra paradossale – non ho pensato che stavo affrontando un “genere” che ha degli esempi molto illustri: semplicemente, sentivo che la storia che avevo in mente – quella di una difficoltà femminile – è per certi versi una storia “globale”. Viviamo sempre più in un mondo globale, in cui i problemi di un Paese si riflettono, a catena, in quelli di un altro: forse questo è un aspetto che percepisco fortemente perché vivo in Inghilterra e non si fa che parlare di Europa e di Brexit, ma ho la sensazione, anche quando sono in Italia, che siamo sempre più legati a doppio filo al destino degli altri Paesi, vicini o lontani. Io avevo l’urgenza di raccontare una storia di emancipazione femminile (e quando si parla di emancipazione femminile si intende semplicemente il prendere coscienza dei propri bisogni vitali) e dell’emancipazione di un Paese, che è una forma di emancipazione analoga, in cui si capisce di che cosa abbiamo bisogno, che cosa manca al nostro benessere e che cosa si deve fare per cambiare le cose: quindi ho percepito subito questa storia come ottocentesca, forse perché l’800, che per certi versi inizia già nel ‘700, con la Rivoluzione francese, ha trasportato il mondo nella modernità; il mondo di oggi è fortemente figlio di quei 150 anni fa, a maggior ragione per noi Italiani. Dunque, mi sono avventurata con un briciolo di spavalderia, un briciolo di eccessiva spavalderia…

G.: … Coraggiosamente…

B.C.: Coraggiosamente, sì, mi sono avventurata su un terreno che non immaginavo potesse essere così denso e anche così accidentato: quella del terreno denso è stata la parte bella, perché ho avuto bisogno di molto tempo per fare ricerca e facendo ricerca riflettevo su quello che volevo scrivere, per cui questo romanzo è stato per molto tempo con me, nella mia testa, nelle mie riflessioni; terreno accidentato perché mi rendevo conto che siamo in un periodo in cui tutti corriamo come matti, in cui le nostre attenzioni al mondo sono diventate magari molto intense, ma anche molto brevi e lo vediamo nelle comunicazioni, perché non ci si parla più nemmeno con lunghe telefonate, ma con messaggini che al massimo hanno otto parole; non andiamo più al cinema  vedere dei colossal, ma seguiamo in tv le serie di quaranta minuti la volta, ci vestiamo con abiti che si producono in pochissimo tempo, mentre una volta una sartina ci metteva settimane a confezionarli. Insomma: il mondo è votato alla velocità e la nostra attenzione si è abituata ad essere veloce, rapida. In un mondo così, dicevo, scrivere un romanzo lungo e che ha anche i “tempi” del 1800, quando la gente leggeva anche perché la sera non c’era molto da fare, per certo versi è una scommessa: mi sono domandata se avesse un senso e alla fine mi sono detta che quello che aveva senso per me mi bastava e non per arroganza, ma perché non si può scrivere pensando di confezionare qualcosa per il mercato. Almeno, io la penso così. Si deve seguire una propria sensazione, un proprio progetto: il mio era quello di raccontare un pezzo di ‘800 con la lentezza – o, meglio, la densità – che l’800 richiede.

G.: In effetti, una delle domande che le avrei fatto ha già in queste sue parole trovato la riposta: mi spiego. In che periodo è ambientata la vicenda?

B.C.: Nei dieci anni che vanno dal 1838 al 1848: ho scelto questo periodo così preciso (anche se è un corso del tempo stendhaliano, nel senso che alcuni anni sono molto lunghi, altri invece corrono) perché nel 1837 sale al trono inglese una regina di diciannove anni, la prima donna dopo Elisabetta I, e cioè la Regina Vittoria che, tramutando il suo regno in impero, cambierà anche la percezione nei confronti delle donne dimostrando che possono occupare posizioni di rilievo. Lei lo poteva per nascita, essendo destinata a salire al trono, ma molto rapidamente ha messo in chiaro che chi comandava, ora, era lei.

G.: Ho fatto questa domanda perché in questo libro si parla, come lei ha già accennato, di emancipazione femminile, di vaccinazioni, di cambiamenti storici e sociali epocali; si racconta la vicenda di una persona che arriva da una cultura molto diversa e si trova fra gente che non la capisce e forse non vuole capirla… E poi c’è l’Italia, che è ancora, ovviamente, disgregata. E allora mi sono detta: “Ma guarda un po’ come questo inizio di diciannovesimo secolo somiglia, pericolosamente, all’inizio del ventunesimo…!”

B.C.: Come no?! E questa è stata una sorpresa anche per me: quando ho cominciato a seguire la storia che avevo nella mia testa e ho cominciato a fare le mie ricerche, non è che sapessi esattamente le vicende delle polemiche sui vaccini nell’800 e altre cose e, via via che le andavo scoprendo perché erano necessarie allo sviluppo della mia storia, le vedevo sui giornali e telegiornali: ero anche un po’ preoccupata da questa coincidenza, però poi, come dicevo prima, ho pensato che la società di oggi si modella su quella dell’800 e quindi c’è una concreta e oggettiva vicinanza, istanze sociali incluse. Non dimentichiamo che è nel 1848 che Karl Marx scrive il “Manifesto”, che arriva ad una visione diametralmente opposta degli obblighi di una società e delle sue caratteristiche; nella prima metà dell’800 c’era già a Londra il problema delle frontiere e dei profughi, che in Inghilterra chiamavano esuli politici, vivevano con qualche mezzo in più ed erano molti meno di quelli di oggi, ma erano tanti, paragonati al numero di chi li accoglieva. E’ stato molto interessante trovare conferma alla mia idea secondo cui in realtà noi non cambiamo mai. Gli esseri umani, gli individui, hanno sempre le stesse paure, le stesse aspirazioni, gli stessi desideri, le stesse illusioni e questo è il motivo per cui continuiamo a riconoscerci, per esempio, nella letteratura degli Antichi: diciamo quanto siano moderni Omero, Virgilio, Orazio, ma la verità è che non sono loro moderni, quanto noi antichi; noi siamo sempre gli stessi. Per questo non è impossibile pensare che ciò che agita la mia protagonista femminile (“Sarò in grado di farmi capire in un altro Paese? Riuscirò ad ambientarmi? Quanto mi mancherà il mio Paese d’origine? Quanto è importante apprendere una lingua nuova? Quando una lingua è la nostra “casa” come individui?”) in realtà sia ancora oggi molto attuale, molto vero: non ho scritto queste cose perché attuali, ma perché lo erano in quelle vite e mi fa piacere, anzi, per qualche verso mi commuove, che ci si ritrovino delle cose di oggi.

G.: Il romanzo è affollato di personaggi (e parlo in generale di tutti i personaggi, protagonisti, comprimari, comparse) che sembrano reclamare tutti fortemente l’attenzione del lettore, al punto che ci sono capitoli nei quali non si parla mai di Anne, Prospero o Casimiro, cioè i veri protagonisti. Io ho il privilegio di incontrare tanti scrittori e tutti mi dicono che non sono loro a decidere quando debba emergere un personaggio, ma é il personaggio stesso a raccontare la storia e a prendersene uno spazio. E’ successo anche in questo libro?

B.C.: Se mi avesse fatto questa domanda qualche anno fa, avrei risposto come tutti gli altri Autori: i personaggi si raccontano, guidano i fatti per far capire dove debba andare la storia e quando l’ho scoperto col mio primo libro, “Rosso vermiglio”, ero molto meravigliata che si verificasse questa specie di magia. Poi ho cominciato a pensarci, a chiedermi se si trattasse veramente di magia e mi sono anche chiesta se mi andasse bene non avere il controllo della mia opera, che ne fossi in qualche modo preda. Quando ti dici: “Sono i personaggi che mi prendono la mano”, è quasi come dire che la tua immaginazione creativa arriva da qualche altra parte, come fosse qualcosa al di fuori del mondo. Io mi sono detta che no, non è così, e che avrei lottato se i miei personaggi volevano portarmi da una parte mentre io volevo andare da un’altra: “Vediamo se nasce una specie di braccio di ferro fra me e loro e vediamo chi vince!”. Per questo, per esempio, quando il personaggio di Theresa Manners, che è una grande viaggiatrice, avrebbe voluto andare a Napoli, a Palermo e fare mille altre cose, e la sua scrittura era debordante, come lei, sono intervenuta e le ho detto : “Cara Theresa Manners, io racconto nelle tue lettere che hai viaggiato, ti ho seguito per un po’ perché volevo fare vedere il tuo diventare una donna realmente indipendente, capace di guadagnare del denaro facendo ciò che ti piace, cioè scrivere, ma anche se resti profondamente inglese il Paese in cui sei arrivata a vivere ti piace tantissimo, per cui ora basta, ti fermi a Genova”.  Mi chiamava anche la storia di qualcosa di più fra Anne ed Enrico, Enrico stesso voleva prendersi Anne fra le braccia, baciarla, dirle: “Sei la donna della mia vita”, ma io ho detto: “No! Voglio lasciare qualcosa che sia abbozzato, voglio fare un dispetto ai miei personaggi”. Mi sembrava che ci fosse una sorta di dialettica: quindi, per rispondere alla domanda, quando noi scrittori diciamo che sono i personaggi a guidarci, credo che intendiamo semplicemente dire che c’è un serbatoio un po’ oscuro dal quale attingiamo quando scriviamo e di cui non siamo perfettamente consapevoli; diciamo che sono i personaggi a decidere, ma naturalmente siamo sempre noi, solo che ci sono degli strati un po’ profondi che secondo me è bene che non vengano perfettamente alla luce. Io, mentre scrivo, me li sono sempre immaginati così i miei personaggi, come immersi nella penombra, come quando si sta tra la folla, o ad una festa, e non si mettono a fuoco tante facce: poi qualcuno entra nel nostro cono visuale e allora lo seguiamo per un po’ e ne capiamo qualcosa, ma quello si allontana un’altra volta.

G.: Questo – lo abbiamo già detto – è un romanzo storico, ma con tanta… geografia: oltre ai viaggi di Theresa ci sono le due grandi capitali, che (lei lo dice molto bene nelle note, sempre importanti da leggere alla fine di un libro, ma per questo suo assolutamente fondamentali) sono viste come “serbatoi” di vita, di energia, come se lei vi avesse avvertito dei sussurri da dover trasmettere agli altri. Insomma, non sono “scenografia”, o l’ambientazione anche culturalmente importante del romanzo, ma un vero e proprio magma (o, almeno, io li ho intesi così). E’ questo che voleva dire?

B.C.: Sì. Assolutamente sì. Questa è stato un romanzo molto… “camminato”, camminato nella città: mi emoziona pensare che quando il sole batte sul Po o sul Tamigi quel sole in quel modo lo vedevano Dickens, o Cavour, o D’Azeglio. Quelle cose non cambiano e se si guarda con attenzione ci si rende conto che – e torniamo al discorso di prima – magari sono cambiate solo alcune caratteristiche dei luoghi: ad esempio, a Canary Wharf a Londra, c’erano dei bastimenti che arrivavano carichi; adesso lì non ci sono più i bastimenti, ma gli uffici finanziari e dunque il posto del commercio è lo stesso, l’anima commerciale del Paese è rimasta nello stesso luogo. E’ abbastanza impressionante… Percorrere i luoghi con la voglia di vedere dove la storia si è fermata è sempre emozionante. Da anni, nelle città fotografo o trascrivo tutte le lapidi che incontro, in cui sono scritti il nome e l’età delle persone: ecco, io ho sempre la sensazione che la Storia si sia fermata in quei luoghi. Si tratta di  capire quanto ancora ci è vicina: per me è molto emozionante sentirsi immersi nella storia, forse è il mio modo di sentire che c’è un futuro. Quella che per me oggi è cronaca domani sarà la Storia. Non so come dirlo meglio di così: sento che siamo tutti la stessa roba, sento una strana forma di comunione con tutti, quelli che ci hanno preceduto e quelli che ci saranno dopo di noi, e questo mi affascina. Le città sono luoghi molto forti in questo senso, per cui è verissimo: le mie città non sono delle scenografie, ma personaggi! Londra è un personaggio, Torino è un personaggio.

G.: Ora una domanda che prende spunto dalle note del libro: è in arrivo un romanzo (o un saggio) su re Carlo Alberto?

B.C.: Effettivamente sarebbe un personaggio sul quale scrivere un romanzo che avrebbe molti chiaro-scuri, ma non ci sarà: almeno, non da parte mia. Su di lui sono stati scritti molti e interessantissimi saggi, la sua è stata una figura molto studiata. Io credo di avere fatto già un bel pezzo di strada con il 1800: insomma, ci sono già stata abbastanza! Adesso ci sono altre storie, altri personaggi che arrivano da quella penombra e mi passano davanti: prima o poi, qualcuno di loro mi tirerà per la giacchetta un po’ più degli altri…!

G.: …Ah, ma allora sono davvero i personaggi a farsi sentire!

B.C.: …Sì, sono i personaggi, con le loro storie…

G.: Un’ultima cosa: io ho il pallino dei nomi che vengono dati ai protagonisti e così, quando leggo un libro, magari vado a cercarne il significato. Nel suo romanzo i protagonisti si chiamano Prospero (il significato del nome è chiaro), Casimiro, che significa “portatore di pace”, e Anne, che significa “la graziosa”. Mi sembrano nomi perfetti!

B.C.: …Sì, perfetti! …  Io non lo sapevo, ma è perfetto, è incredibile! … Allora le racconto perché ho scelto questi nomi: Prospero è un nome molto ottocentesco, ci sono molti Prospero in Piemonte e poi è il mio omaggio al Prospero di Antonia Byatt. E’ una scrittrice che amo moltissimo perché scrive romanzi storici poco storici, come io vorrei pensare del mio, che è un romanzo storico, ma, a differenza del romanzo storico tradizionale, nel mio non  ha un narratore onnisciente, io ne so quasi meno dei miei personaggi. Soprattutto, qui si coltiva l’imperfezione, che è il tema reale del romanzo: l’imperfezione della bellezza e l’imperfezione della vita umana, fino alla conclusiva imperfezione della battaglia. E poi faccio un uso molto post-moderno del modo di raccontarsi che ha l’800: metto lettere, memoriali, diari,  la narrazione fatta dalla prima alla terza persona; insomma, il mio è un romanzo storico, ma del 2018.Però, quando andavo a indagare i personaggi, sentivo che non potevano che essere quelli e mi sono venuti in mente così… Quindi, il fatto che ci sia  Casimiro“portatore di pace” e Anna “la graziosa” mi fa quasi venire la pelle d’oca, perché vuol dire che i personaggi non solo ti tirano per la giacchetta, ma arrivano già anche con un loro nome!

 

 

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2 thoughts on ““Il rumore del mondo”: chiacchierata con Benedetta Cibrario

  1. Amo la Cibrario, della quale ho letto anche gli altri romanzi; apprezzo soprattutto la sua scrittura, copiosa raffinata e colta, soprattutto capace di delineare i personaggi in sfaccettature sorprendentemente diversificate e realistiche. Tuttavia quest’ opera, impegnativa certo ma accattivante, pare a volte compiacersi delle descrizionia a scapito di una trama che si disperde in pagine di botanica, filati e guide turistiche. Comunque un grande affresco, complimenti alla scrittrice

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