“Il silenzio della collina”: chiacchierata con Alessandro Perissinotto.

ALESSANDRO PERISSINOTTO, “Il silenzio della collina”, Mondadori.

2019

pagg 252

€ 19,00

Ritrovare un padre imperfetto, assistendolo nei suoi ultimi giorni e, cercando di interpretare una sua insondabile e disperata richiesta, incrociare la verità sulla terribile e autentica sorte di una ragazzina rapita e barbaramente uccisa moltissimi anni prima: questa, in estrema sintesi, la trama del nuovo romanzo di Alessandro Perissinotto, “Il silenzio della collina”(Mondadori).

Il protagonista, Domenico Boschis, attore molto amato dalle platee televisive, tornato nelle natìe Langhe per assistere il padre ricoverato in un hospice, affronta il suo dolore di figlio forse mai amato da un padre distaccato e selvatico che pure ora, nelle sue ultime settimane di vita, non è nemmeno l’ombra dell’uomo rozzo e brutale che è stato. Che cosa prova per lui? Compassione? Rabbia? Amore? E perché il vecchio, nei sempre più rari momenti di lucidità, gli urla senza voce: “La ragazza, la ragazza!”. Chi è questa ragazza? Quale storia, certamente dolorosa a giudicare dall’ossessiva e disperata richiesta del padre, la riguarda?

Con “Il silenzio della collina”, Alessandro Perissinotto unisce la vicenda di fantasia del protagonista ad un terribile caso di cronaca, autenticamente avvenuto negli anni ’60 nelle Langhe e qui fedelmente ricordato: una ragazzina di tredici anni, Maria Teresa Novara, venne rapita, venduta e abusata per mesi da gente “per bene” del posto e poi lasciata morire dai suoi aguzzini; il suo fu il primo rapimento di minorenni nella paciosa Italia degli anni ’60, oscurato da quello, avvenuto subito dopo ma molto più famoso, di un altro ragazzino, Ermanno Lavorini.

Nel romanzo sono molte le tematiche sociali proposte alla riflessione del lettore dall’impeccabile e asciutta scrittura di Perissinotto: su tutte, quella della violenza sulla donna, che è considerata da maschi brutali un oggetto da possedere, usare e, se minacciati, eliminare: cinquanta anni fa come oggi, dice la cronaca quotidiana di questo nostro povero Paese, purtroppo.

Alessandro Perissinotto

L’AUTORE:

Alessandro Perissinotto nasce a Torino nel 1964. 
Esordisce nel 1997 con il poliziesco L’anno che uccisero Rosetta (Sellerio), seguito nel 2000 dai noir La canzone di Colombano (Sellerio – Premio Fedeli) e Treno 8017 (Sellerio 2003). Nel 2004 pubblica per Rizzoli Al mio giudice, vincitore di vari premi fra cui il Grinzane Cavour 2005 per la Narrativa Italiana, nel 2006 Una piccola storia ignobile  (Premio Camaiore), in cui compare il personaggio di Anna Pavesi, una psicologa che usa la sua conoscenza dell’animo umano come altri detective usano i mezzi della polizia scientifica e che tornerà nei successivi L’ultima notte bianca e L’orchestra del Titanic. Sempre per Rizzoli, nel 2009 pubblica Per vendetta; nel 2012 vince il Premio Selezione Bancarella con il romanzo Semina il vento (PIEMME 2011, anche Premio Fenice Europa 2012); nel 2013 pubblica Le colpe dei padri e nel 2014 Coordinate d’oriente, sempre con  PIEMME 2014. I suoi romanzi sono stati tradotti in numerosi paesi europei e in GiapponeE’ editorialista per Il Mattino di Napoli e per La Stampa di Torino.“Il silenzio della collina” (Mondadori) è il suo nuovo romanzo.

Ecco l’intervista ad Alessandro Perissinotto, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.

Canzone consigliata: “Povero tempo nostro”, di Gianmaria Testa.

Giancarla: Le vicende raccontate nel libro, la parte di invenzione letteraria e quella legata alla cronaca, sembrano rifarsi all’esigenza di “rimettere a posto” le cose del passato: è d’accordo?

Alessandro Perissinotto: Direi di sì. L’idea di riconciliarsi col passato non perdonandolo, ma portandolo a dimensione di verità è il filo conduttore dei miei romanzi, dal 2013 in poi: cerco di farlo con “Le colpe dei padri” (Piemme, 2013), in cui il passato è quello del terrorismo e con “Quello che l’acqua nasconde” (Piemme, 2017), in cui al tema del terrorismo si aggiunge quello della violenza psichiatrica nella cura delle malattie mentali negli anni ’70, prima della “Legge Basaglia”, e lo faccio ora con la storia di Maria Teresa Novara, la prima minorenne rapita nell’Italia Repubblicana. La sua è una storia che andava riportata alla luce, ma attraverso una dimensione narrativa che ho deciso dovesse essere quella del rapporto di un figlio col padre. Il protagonista del mio romanzo si chiama Domenico Boschis, anche se le platee televisive lo conoscono con uno pseudonimo che nel romanzo non rivelo; è un “figlio” delle Langhe che si è trasferito a Roma, ma, soprattutto, è figlio di un padre violento, distratto, autoritario, che ben rappresenta la necessità di riannodare i fili con un certo passato, ma anche con una generazione che in alcuni casi ha molto deluso quella successiva.

G.: Di Maria Teresa Novara si erano già occupati altri libri, ma lei, come ha appena ricordato, ha deciso di inserirla in una vicenda letteraria: a me, per questa ragione, è tornato alla mente quello che aveva detto Fabrizio De André a proposito dell’ispirazione della “vera” storia di Maria Bocuzzi, la sedicenne che è diventata “Marinella” . De Andrè dice: “La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte”: io ho pensato che inserire la storia di Maria Teresa in una vicenda letteraria sia stato, dandole una dignità letteraria da autentica tragedia classica, un modo per “compensarla” almeno in parte di tutto l’orrore che ha subito. Potrebbe essere?

A.P.: … Ahimè, io non credo moltissimo nelle “compensazioni” postume, però credo nella dimensione tragica cui lei faceva riferimento. Gli eroi tragici e soprattutto le eroine tragiche consacrano il loro dolore al miglioramento delle condizioni di chi verrà dopo: inserire la storia di Maria Teresa Novara in una narrazione serviva proprio a questo. Io, però, non ho cercato di addolcirle la morte: racconto la vita e la morte di Maria Teresa Novara così come i giornali dell’epoca ce l’hanno consegnata, ma cercando di dare a questa vicenda una possibilità di azione nel presente, facendoci riflettere sull’origine della violenza sulle donne.

G.: Infatti, quello della violenza sulle donne è uno degli argomenti portanti della parte “sociale” del romanzo: c’è la violenza domestica, vissuta dalla madre di Domenico, la quale si salva perché lascia il marito; c’è quella terribile subita da Maria Teresa Novara – e giustamente lei ha ricordato che tutta la vicenda è facilmente verificabile su internet, come io ho fatto, per ricostruire la storia che lei riporta esattamente per come è avvenuta; ce n’è anche una terza, atavica, che lei ci ricorda citando testimonianze letterarie. Quindi le chiedo: le donne sono comunque destinate a subire violenza, qualche che essa sia?

A.P.: Se pensassi che le donne sono destinate a subire qualche forma di violenza non avrei scritto né questo libro, né altri testi che ho dedicato all’argomento: certo è che la violenza sulle donne non finisce semplicemente dando la colpa ai tempi moderni, a internet, o ad una odierna mancanza di valori, perché – e questo cerco di testimoniare anche attraverso libri del passato – la violenza sulle donne è atavica, ma anche le cose ataviche possono essere sconfitte. Quello che potrebbe sconfiggere la violenza sulle donne non è semplicemente la condanna di queste violenze: serve un cambiamento di atteggiamento da parte dell’uomo (e parzialmente anche da parte della donna) sul concetto di “proprietà delle persone”. Ne “La malora”, di Beppe Fenoglio, compare l’idea che le donne siano “proprietà” degli uomini: ovviamente, Fenoglio si oppone a questa idea, ma nel mondo contadino degli inizi del ‘900, che lui racconta, dire “la mia donna” e dire “le mie bestie” è la stessa cosa; il possessivo “mia” prelude a una proprietà. Non possiamo più considerare i rapporti uomo/donna e, in generale, i rapporti familiari come “di proprietà”: finché non sconfiggiamo questo, l’idea della violenza sulle donne rimarrà radicata, perché se le donne vengono considerate proprietà dell’uomo, quando l’uomo si sentirà privato di una proprietà opererà anche violentemente per riconquistarla. Non è questa la natura dei rapporti fra le persone.

G.: Torniamo al protagonista: il ritornare alle sue radici è quasi letterale, fatto del contatto con la terra, per ritrovare suo padre. Lei, come Autore, ne è testimone: negli ultimi tempi pare esserci una grande attenzione alla figura del “padre”, come ci fosse l’esigenza di recuperare una presenza spesso imperfetta (ma nessuno è perfetto), ma anche sfuggente, se non addirittura fuggita o negativa. Riallacciandoci al discorso sulla violenza sulle donne (e, fra l’altro, mi piace che nel suo romanzo la figura paterna positiva sia quella di un padre “putativo”, che addirittura accudisce cucinando), potrebbe essere che la mancanza di un positivo modello maschile ingeneri questo ritorno della barbarie contro le donne? Forse anche per questo voi Artisti, voi Scrittori sentite l’esigenza di parlarne?

A.P.: … Non so…: io sono sempre cauto rispetto a interpretazioni psicanalitiche che si applichino a tutti in maniera indiscriminata. Non so se la figura paterna sia così in crisi: sicuramente – e parlo di generazione anche se di solito è un concetto che non amo – la mia generazione, quella dei cinquantenni, diventata generazione di padri (io sono un padre “putativo”) si è interrogata sulla paternità vissuta prima come da figli e credo siamo inclini ad autoflagellarci; però invece credo che riguardo la paternità la mia generazione abbia fatto dei passi avanti rispetto al passato. Non collegherei la violenza sulle donne all’idea di un padre debole: semmai, ho l’impressione che la violenza sulle donne si colleghi all’idea di un uomo debole, indipendentemente dal fatto che sia un padre, un fidanzato, che abbia avuto o no un padre forte o debole, esemplare o biasimevole. Il fatto che un uomo agisca violentemente contro una donna può essere scatenato (e quasi sempre lo è) dalla sensazione di perdere il controllo su di lei e quindi siamo daccapo: l’uomo sembra avere bisogno del controllo sulla donna; non può essere così, né può essere il contrario, e credo che dobbiamo liberarci di molte strutture di pensiero del passato, questo sì.

G.: Non ho ancora detto della qualità della sua scrittura, di grana finissima, come è sottinteso parlando con lei: ci arriviamo ora. Lei ha già più volte ribadito che questa non è una storia autobiografica, che con la storia del protagonista lei non ha a che fare tranne che per il fatto che anche lei ha dovuto accudire suo padre, malato terminale, in un hospice e che anche a suo padre, come a quello del protagonista, piaceva il gelato: però certamente lei ci descrive qualcosa che conosce molto bene, e lo fa con una lucidità magistrale. Il libro è impregnato dell’incontro con il Dolore, nelle sue varie forme: quanto la perfetta conoscenza del mezzo tecnico, la sua assoluta padronanza della scrittura l’ha aiutata a dominare comunque una materia così difficile?

A.P.: Sicuramente in questo romanzo parto da un mio vissuto, anche se non è totalmente autobiografico: tra mio padre e quello di Domenico l’unico tratto in comune è che appartengono alla stessa generazione. Quello che però ha mosso questo romanzo è stata proprio l’esperienza dell’hospice, che ho vissuto due volte, a pochi mesi di distanza, perché prima è mancato mio padre e poi il compagno di mia madre: il caso ha voluto che fossero ricoverati entrambi nella stessa stanza dello stesso hospice. L’esperienza dell’hospice è stata per me molto importante, perché lì ci si confronta con un tema che rimuoviamo costantemente, quello del finis vitae: lo rimuoviamo così costantemente nei nostri discorsi che probabilmente anche l’hospice, un ospedale dove non si va per guarire ma per passare con dignità le ultime settimane di vita, è un luogo sconosciuto finché non lo si frequenta. Non so se sia la tecnica della scrittura che mi ha condotto a parlarne bene (e accolgo volentieri la sua opinione): ne ho parlato con lucidità perché è stata l’occasione per aprire gli occhi su questa tematica, sul come si vede la vita nel momento in cui la si vede sgocciolare via, in cui ci si rapporta con una realtà in cui tutti sono lì “per quello”. Nel romanzo c’è anche uno spazio dedicato a personaggi minori (il medico, la psicologa, l’infermiera), diversi fra di loro ma accomunati dalla dedizione ad un lavoro che li mette costantemente a contatto con la morte: ognuno di loro reagisce in maniera diversa, ma frequentando l’hospice mi sono chiesto quale tipo di tempra, di coraggio, ci voglia per vivere costantemente a contato con la morte e non solo quella che pare naturale, quando coglie un quasi- centenario, ma con quella di giovani, o di madri. Un altro aspetto del romanzo, un aspetto sociale (anzi, quasi politico: in questi tempi mi sembra opportuno sottolinearlo) è quello della nobiltà di questi luoghi. Noi Italiani siamo abituati a sparare a zero sul nostro sistema sanitario, a dire che nulla funziona: nel romanzo c’è la testimonianza che, nel mio caso come in molti altri, il sistema sanitario italiano non mi ha lasciato solo un istante. Dal momento in cui ho portato mio padre in ospedale, dove gli hanno diagnosticato un tumore in fase terminale, al momento in cui è mancato, il sistema sanitario italiano, gratuito, ha curato mio padre per quanto lo si poteva curare, gli ha trovato una sistemazione dignitosa nella quale io potevo passare le notti vicino a lui; addirittura, gli operatori mi chiedevano che tipo di musica avrebbe voluto ascoltare, gli davano il gelato, come nel romanzo, e gli psicologi mi sostenevano: queste cose andrebbero dette, ogni tanto, perché da noi esistono delle eccellenze che, in quanto tali, non vengono raccontate e forse un romanzo ha anche questa funzione.

G.: …Ci sarebbe anche il “piccolo” problema della rimozione della colpa, che nel romanzo lei tratta ampiamente e che, a proposito dei nostri tempi, mi sembra essere diventato un leitmotiv, mentre l’omertà non pare essere un fenomeno legato solo a certi luoghi, ad altre situazioni: anche questa è una sua denuncia del nostro tempo?

A.P.: Sì, ma è una denuncia che faccio non tanto pensando, nel caso di Maria Teresa, all’omertà come nascondimento di cose che si sapevano: io non credo che il paese di Maria Teresa e quelli limitrofi abbiano nascosto alla giustizia cose a loro note, ma credo che in questo caso l’omertà abbia preso le forme dell’oblìo. L’oblìo, se pensiamo alla famiglia della ragazza, è più che giustificabile, è necessario per elaborare il lutto: è l’oblìo mediatico quello che si trasforma in omertà. In questi giorni, per esempio, ricorre il cinquantennale della morte di Ermanno Lavorini e i giornali parlano di questo fatto: Maria Teresa Novara fu rapita un mese prima di Ermanno Lavorini e morì sette mesi dopo di lui, ma della sua storia non si parla mai. Questa rimozione secondo me ha a che vedere con il genere: anche se le ragioni della morte di Lavorini non risultarono poi legate allo stupro (ma all’inizio questo si ipotizzò), l’uccisione di un ragazzino ventilando un movente sessuale era una cosa sconvolgente: per una ragazzina sembrava quasi normale, tanto che la cosa passò sotto silenzio. Un’altra rimozione che mi sembrava opportuno portare alla luce era quella della localizzazione. Lei diceva: “L’omertà non è legata solo a certe zone del Paese”: io direi che il crimine non è legato solo a certe zone del Paese. Se il rapimento e l’omicidio di Maria Teresa Novara fossero avvenuti oggi tutti avrebbero pensato a qualche extracomunitario, immigrato o profugo: l’assassino di Maria Teresa Novara si chiamava Calleris (un cognome prettamente piemontese), era noto come “il bandito di Carrù”, che è in provincia di Cuneo. Quello che cerco di descrivere nel romanzo è lo spostamento della frontiera e lo faccio in una conversazione del protagonista con la proprietaria della trattoria del paese. La frontiera che distingue i “buoni” dai “cattivi” si sposta, per cui c’è una frontiera che è quella dello Stato – e chi viene da fuori è necessariamente cattivo, soprattutto se viene dal sud del Mediterraneo; la seconda frontiera è quella che la Lega ha creato ad arte più volte, quella Nord/Sud, che oggi nella politica della stessa Lega è scomparsa ma che metteva i “cattivi” al Sud e i “buoni” al Nord; infine c’è la frontiera del paese e infatti la proprietaria della trattoria a un certo punto dice che i “cattivi” sono di Canale, che è un paese a pochi chilometri. Conosciamo queste pericolose geometrie variabili delle frontiere e del limite “buono/cattivo”, che ci portano, oggi, ad una recrudescenza di razzismo.

G.: Altre cose si dovrebbero dire del suo romanzo e quanto mi piacerebbe parlare dei molti riferimenti letterari che contiene… Mi permetto solo di ringraziarla per avere ricordato nel libro anche la musica poetica di Gianmaria Testa, un cantautore che io per prima conosco poco, come molti Italiani, ma che assolutamente merita di essere riscoperto. Il 18 gennaio 2019 è stato pubblicato l’album postumo “Prezioso”. Alcuni versi del primo degli undici brani raccolti dalla moglie dell’Autore si intitola “Povero tempo nostro” e dice:

Povero tempo nostro, povere fatiche,

Povera la Terra intera

Che tutte intere le patisce.

Povero tempo nostro

E poveri questi giorni

Di magra umanità

Che passa i giorni e li sfinisce.

Lascia che torni il vento

E con il vento la tempesta

E fa che non sia per sempre

 Questo tempo che ci resta.

Lascia che torni il vento

E dentro al vento la stagione

Di quando tutto appassirà

Per chi bestemmia le parole”.

Bellissimo. Ha voluto fare un omaggio a Gianmaria Testa inserendolo in questo libro?

A.P.: E’ un omaggio che lui in passato ha fatto a me, con i suoi primi album. La canzone che lei ha citato io l’ho sentita in anteprima perché la moglie di Testa, Paola Farinetti, è una mia amica: quando le ho raccontato che stavo per pubblicare questo libro lei aveva questo cd inedito fra le mani e io mi sono detto che ero molto contento di aver messo quasi in apertura le parole di Gianmaria Testa. E’ stato un testimone non silenzioso, ma molto discreto del cambiamento. Senza inutili campanilismi, se c’è qualcosa che io amo della mia terra è proprio questa discrezione, che era di Fenoglio, Pavese, Gianmaria Testa, Paolo Conte: dire le cose, ma sottovoce. C’è una espressione piemontese che non è difficile capire: “ en bele manère”, raccontare con belle maniere, come se la gentilezza e la bellezza potessero accompagnarci anche raccontando l’orrore e la sciagura dei giorni nostri, rendendo in qualche modo più evidente l’orrore, ma anche la via d’uscita da quell’orrore.

Giancarla Paladini.

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