“Ti devo un ritorno”: chiacchierata con Niccolò Agliardi

con Niccolò Agliardi 6 nov 2016

 

 

 

 

 

 

“Ti devo un ritorno”, Niccolò Agliardi (Salani Editore)

Pagg 216

€14,90

 

 

 

Quando l’ho conosciuto, più di dieci anni fa, la prima cosa che mi ha colpito di Niccolò Agliardi sono stati gli occhi: meglio, il suo sguardo, pulito, bellissimo e come indifeso. Ho dovuto dirglielo. La seconda, la sua gentilezza, vera e timida; la terza, la sensazione che noi due saremmo diventati amici: il suo sorriso, luminoso come le sue inattese e squillanti risate, me lo promettevano.

Promessa mantenuta: siamo diventati amici.

Ai tempi del nostro primo incontro Niccolò Agliardi era un giovane e promettente Autore e Cantautore, affannato dal bisogno, che ha l’Artista vero, di accontentare la sua Arte; nel contempo, aveva la pragmaticità dell’uomo intelligente che non dimentica che, in un modo o nell’altro, bisogna pur mettere la minestra nel piatto. Umile e consapevole, insomma. Solidi studi classici e una laurea in letteratura italiana alle spalle, una vera passione per la canzone d’Autore italiana, sensibilità fortissima e mai banale, Niccolò all’epoca mi confidò che si era dato un tempo massimo: se entro una certa data non avesse sfondato nel campo della musica, avrebbe chiuso con quel mondo e sfoderato un piano B.

Non era un velleitario, il giovane Niccolò, ma al tempo stesso era un Poeta e non poteva farci niente: da qualche parte la sua Poesia doveva portarlo e i risultati dovevano arrivare.

E finalmente sono arrivati.

Anni di duro e umile lavoro senza mai montarsi la testa, nemmeno quando cominciava a incamerare enormi soddisfazioni: cantare davanti al Papa, scrivere per Zucchero, Eros Ramazzotti, Mietta; vincere due volte il Premio Lunezia, portare in teatro un recital su De Andrè, scrivere con Alessandro Cattelan il romanzo Ma la vita è un’altra cosa (Mondadori), e poi ancora canzoni per Emma e, soprattutto, per una sua amica speciale: Laura Pausini. Nel 2009, con Laura Pausini e Paolo Carta, Niccolò Agliardi riceve a Los Angeles, per la categoria Miglior ballad pop, il prestigioso premio ASCAP Awards come autore del brano En cambio no, versione spagnola di Invece No. Intanto, radio e ancora teatro. E poi i suoi dischi, quelli in cui canta da sé quello che scrive, mentre si va costruendo un pubblico tutto suo che lo conosce e lo apprezza sempre più. Nel 2014 il fondamentale incontro con “Braccialetti rossi”: sua la colonna sonora, che sarà premiata al Festival del Cinema di Roma 2014 come migliore dell’anno per la sezione fiction e per la migliore canzone originale (“Io non ho finito”). E ora eccolo di nuovo con Laura Pausini e“Simili”.

Ma tutto questo non bastava per calmare la sua voglia di raccontare storie, persone e animi e così è nato il romanzo “Ti devo un ritorno” (Salani Ed) che, partendo da un fatto di cronaca, parla di amicizie e di famiglie imperfette, del come ci si possa perdere e ritrovare: di come, in ogni caso, se si ama ci si debba l’un l’altro responsabilità, cura e disponibilità ad ascoltare (o, semplicemente, ad esserci). Lo capirà Pietro, trentadue anni incerti, che da bravo non-adulto non ha ancora trovato un vero equilibrio e non sa che cosa farà della sua vita. La morte improvvisa del padre lo spiazza e così “scappa” alle Azzorre, perché «solo partendo s’impara a perdere autobus, aerei e persone, restando vivi lo stesso». Qui incontra Vasco, diciotto anni inquieti, con cui instaurerà un’amicizia protettiva, da fratello maggiore: ma un naufragio ha portato sull’isola un carico di cocaina che stravolge la vita degli abitanti e impone ai protagonisti scelte importanti e definitive. Con Vasco, ascoltandolo e preoccupandosi per lui, Pietro scoprirà qualcosa di se stesso che non immaginava: la raggiunta maturità, ovvero la capacità di esserci per chi si ama.

Ti devo un ritorno”, che non è certamente un libro sentimentale, pure parla di sentimenti: alla maniera di Niccolò Agliardi, naturalmente, e cioè con parole perfette e mai sprecate. E, anche quando non lo sembrano, lievi.

Ecco l’intervista a Niccolò Agliardi, il cui sonoro, che trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina, contiene anche la lettura dell’Autore di alcuni passi del suo romanzo.

Canzone consigliata: “Acrobati”, Niccolò Agliardi

 

Giancarla: Niccolò, amichetto mio, come stai?

Niccolò Agliardi: Bene: ed è un grande piacere parlarti! …Possiamo svelare che abbiamo lavorato insieme e collaborato per un periodo della nostra… gioventù?

G.: Della tua gioventù: io ero già avviata ad una grigia maturità…!

N.A.: … Ad una bionda maturità, essendo tu bionda…!

G.: Va bene, va bene…Passiamo al paragrafo B… No, a parte gli scherzi, il nostro è stato davvero un bell’incontro, e mi è caro. Ma adesso ci racconteresti qualcosa di questa tua storia così dipanata e al tempo stesso ingarbugliata?

N.A.: Questa storia ingarbugliata nasce da un fatto di cronaca del 2001, quando un narcotrafficante italiano parte dal Venezuela verso l’Europa; sul suo catamarano trasporta mille chili di cocaina purissima, ma il timone si guasta e lui si ritrova in mezzo all’oceano, con centinaia e centinaia di cofanetti di droga. I viveri e l’acqua scarseggiano e così, essendo stato trasportato dalle correnti in prossimità delle Isole Azzorre, per salvarsi cerca di nascondere il più possibile del suo carico: un po’ nelle grotte, un po’, usando dei pesi, in fondo al mare. Ma il giorno dopo, le correnti marine e le reti dei pescatori trasportano sulle spiagge di una delle isole, quella di Sao Miguel, questo carico stupefacente (mai è esistita parola più adatta): l’isola si riempie di droga e così calano le ombre su due generazioni di abitanti che consumano cocaina in maniera forsennata. Un inferno. Il mio, però, non è un libro sulla droga né sulla dipendenza: il romanzo racconta il rapporto, secondo me speciale, che nasce tra Pietro e Vasco, i due protagonisti, che si ritrovano casualmente sull’isola proprio nel momento in cui accade quello che ho appena raccontato. Questi due giovani uomini, con tutte le loro fragilità, le disaffezioni alla normalità e i pezzi mancanti delle loro esistenze, finiscono col volersi molto bene e cercano di aiutarsi l’un l’altro, cercando di rendere adatte a qualcosa le loro vite.

G.: Da qui parte una serie di considerazioni su due aspetti fondamentali della vita di ciascuno di noi: il rapporto con i propri genitori e, se mi passi l’espressione un po’ enfatica, l’eterna lotta fra il Bene e il Male, il saper scegliere quale sia il percorso migliore. A proposito dei genitori, con i suoi – e specie con la madre – Pietro ha un rapporto conflittuale, ambivalente: del resto, non è che questi due lo abbiano aiutato a crescere serenamente… Il romanzo si apre con la morte di suo padre e proprio in quel momento Pietro si accorge di quanto il genitore sia stato per lui un punto di riferimento: forse prima non se era reso conto. Ma sono davvero questo i genitori? Davvero sono “solo” un punto di riferimento?

N.A.: Ah, per Pietro, in effetti, non lo sono: oppure sì, ma lo potrebbe scoprire tardivamente… Io non sono genitore e sono in età decisamente genitoriale: vorrei che questa considerazione venisse presa da me stesso non come una rinuncia, ma un dato reale dovuto al fatto che la vita mi ha garantito sorprese e imprevisti che non mi hanno consentito (finora almeno, e lo dico con un pizzico di rammarico, ma, ripeto, “finora”) di diventare padre. Io credo che i genitori dovrebbero essere guardati in maniera più laica, sperando che i loro difetti non siano troppo impattanti nelle vite dei  figli: siamo tutti esseri umani con enormi fragilità e mi rendo conto che se fossi padre, malgrado tutto quello che posso recriminare e rimproverare ai miei genitori, probabilmente farei i loro stessi errori. Quando parlo di laicismo nei confronti dei genitori intendo proprio questo, cioè saperli accettare nelle loro drammatiche debolezze e umanità: credo che Pietro, il protagonista, alla fine le accetti come un dato di realtà.

G.: Sono molti i passaggi di grande intensità in questo libro (del resto, la tua poetica, se mi permetti di usare questo termine, è appunto all’insegna della riflessione, dello studio, dell’approfondimento e della profondità): per esempio, il rapporto fra Pietro e Vasco si potrebbe leggere in tanti modi perché, anche se non hanno una differenza di età tale da giustificare una paternità reale, certamente Pietro diventa per Vasco una specie di …vice-papà. E’ così?

N.A.: La parola “vice” è quella che sottolineerei tante volte e invece lascerei cadere la parola “papà”…Mah, non so: raccontare di Pietro e Vasco per me è sempre un po’ complicato, perché ci sono sfaccettature così aderenti alla mia realtà e altre invece così immaginifiche e poco probabili… Quello che ti posso dire è che vengo da tre anni di un lavoro molto bello e molto duro, cioè la collaborazione come Autore della parte musicale di una fiction televisiva di grande successo, “Braccialetti rossi”, grazie al quale sono stato a stretto contatto con adolescenti e tardo-adolescenti simili a Vasco: non è un caso che sia stato Brando Pacitto, uno degli attori di “Braccialetti Rossi”, che per me oggi è praticamente un fratello acquisito, a scrivere i dialoghi di Vasco in romanesco (Vasco è un ragazzino italo-portoghese che parla un romanesco biascicato, perché è figlio di madre romana). Con questi ragazzi ho imparato a pormi nella  figura ibrida, non so se scomoda, o tenera, o utile, o edificante, di fratello maggiore, che prima di insegnare qualcosa rispetta le loro mutevolezze: credo che, in questo, il rapporto fra Pietro e Vasco sia simile a quello che ho instaurato con alcuni degli adolescenti che ho incontrato sul mio cammino in questi ultimi anni. E’ molto difficile definire gli adolescenti, che per loro stessa natura sono cangianti, sono bersagli mobili, e ogni giorno è diverso dall’altro, e l’idea del giorno prima non è detto che sia la stessa del giorno successivo: Vasco fa parte di questo enorme, ingovernabile e non immagazzinabile gruppo e Pietro cerca di fare i conti con questa mutevolezza di umori e affetto. Ciò nonostante, credo che loro due si vogliano davvero tanto bene.

G.: Niccolò, tu, che un po’ mi conosci, sai che sto molto attenta ai nomi dei personaggi perché non penso mai che siano buttati lì a caso, specie quando mi faccio l’idea di conoscere qualcosa dell’Autore. Ho definito Pietro un non– adulto, uno che scappa davanti alle responsabilità: però si chiama … PIETRO! …Come può essere?

N.A.: … No: penso che questa volta ti dovrò contraddire… Nomen omen? Non lo so… “Pietro” è un nome che mi piace, che avrei voluto avere io: “Pietro”, sì, è vero, esprime solidità, forse inconsciamente mi dava un senso di solidità, ma non so, non lo so…

G.: …Diciamo che “Pietro” è un nome abbastanza definitivo: certo, Vasco (Vasco Rossi) l’avevi già incontrato in un libro precedente, perché questo è sì il tuo primo romanzo…in solitaria, però in realtà ne avevi pubblicato un altro, alcuni anni fa, col tuo amico Alessandro Cattelan: un romanzo molto diverso da questo, ma anche lì c’era il tema del viaggio…

N.A.: Sì: hai detto bene, era molto diverso. Lì c’era il viaggio picaresco e spiritoso di due giovani più o meno uguali ad Alessandro e a me (anzi, possiamo anche dire che, sotto mentite spoglie, ci siamo raccontati, permettendoci la vanità terribile di due che nella vita non hanno fatto altro che manifestare vanità … e spero anche un po’ di talento: quello di Alessandro lo attesto). Quello era un viaggio di grandi risate e prese in giro: certo, il viaggio è la grande metafora dell’esistenza umana e quindi è anche facile riportarlo in letteratura.

G.: Quello di Pietro è un percorso di crescita all’interno del romanzo: ovviamente, non riveleremo “l’approdo”, ma certamente il suo è un viaggio molto impegnativo e sicuramente lo è stato anche per l’Autore…

N.A.: Sì, lo è stato, devo dire di sì. Io non sono uno scrittore, sono sporadicamente “prestato” alla letteratura e quindi non so come si sentano gli scrittori: so che per me scrivere questo libro è stato bello ma durissimo. Ho pianto molto e da solo, ho fatto fatica, sono stato tante ore in solitudine… Rileggerlo oggi è ancora più difficile, devo dirti la verità, perché è uno specchio piuttosto impietoso… o molto fedele.

G.: Visto che prima sei stato così carino da volere ricordare che ci siamo conosciuti ben dieci anni fa (!), volevo dirti che mi ricordo benissimo il momento in cui ti ho conosciuto. E mi ricordo anche che, chiacchierando subito dopo che ci avevano presentati, come si fa in questi casi ci siamo chiesti di che cosa ci occupassimo; tu mi hai detto “Io sono un Autore e voglio fare l’Autore”. Ti ricordi?

N.A.: No, però penso di avere detto la verità!

G.: Io lo ricordo molto bene perché mi aveva molto colpito questa tua affermazione: all’epoca avevi già pubblicato un disco, e quindi mi sarei aspettata che tu ti definissi “cantautore”, e invece tu hai sottolineato la parte autoriale come se quella rappresentasse la tua maggiore urgenza artistica. Da allora sono successe tante cose: sono arrivati altri tuoi album, le importanti collaborazioni artistiche, i Premi, i concerti, eccetera. Quindi ora ti rifarei quella domanda e così ti chiedo: di che ti occupi oggi? Chi sei, adesso?

N.A.: …Mi occupo di me, principalmente, prendendomi cura delle persone cui voglio bene …e mi occupo delle parole: penso che abbiamo una lingua tanto dolce, tanto ricca. A me piace la lingua italiana nelle sue sfaccettature pop. Non sono e – grazie a Dio! – non sono mai stato definito un intellettuale, ma sono un giovane uomo “prestato” ad una letteratura popolare (nel senso di pop) nelle canzoni, o attraverso questo libro, o attraverso la radio e, quando mi riesce, anche con altri mezzi, perché penso che la lingua italiana offra anche la possibilità di essere molto lieve. Io spesso mi sento come uno speleologo. Come racconto nel libro, per essere speleologo devi essere addestrato, se no ti fai male e rischi anche che la terra che hai scavato ti ricada sulla testa: io, nel mio essere speleologo, quando racconto e quando uso la parola cerco di essere lieve, perché mi piace comunque vedere la luce filtrare anche dove c’è buio.

G.: Mi sono segnata una frase di pagina centodieci, che chi ha già letto il libro avrà sicuramente notato (perché Niccolò Agliardi ha l’abitudine di “buttare lì” frasi pazzesche come se niente fosse). La frase è: “Le anime difficili hanno sempre da scalciare e quelle simili, da qualche parte, si trovano”…

N.A.: Questa frase rimanda a un link importante… Quando ho scritto il romanzo, praticamente in contemporanea (ed è l’unica altra cosa che sono riuscito a fare) ho scritto una canzone che si chiama “Simili” ed è diventata molto popolare perché interpretata da Laura Pausini: siccome è una canzone che mi ha dato tanto e nella quale credo molto, ho pensato di metterne un pezzettino anche nel mio romanzo. Questa è una frase che non era riuscito ad inserire nel testo: le anime simili si trovano; non si sa come, non si cercano nemmeno, ma a un certo punto si ritrovano vicine.

G.: Sì, è così, si trovano e si ri-trovano: e mi ci trovo un po’ con te, se mi posso permettere.

N.A.: Certo che puoi: grazie.

G.: Ora l’ultimissima domanda, che ti ho già fatto, ma ti ripeto: quando verrai a mangiarti due spaghetti a casa mia?

N.A.: Quando finirà questo periodo così bello, ma così complicato…!

G.: E allora, siccome tu sei, come me, affezionato ad uno straordinario Autore di casa nostra, Ivano Fossati, e ad una sua canzone in particolare, ovvero “C’è tempo”, io spero veramente che, come dice lui, questo per te sia “Un tempo bellissimo”. Grazie, Niccolò.

 

 

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