“Le serenate del Ciclone”: chiacchierata con Romana Petri

con romana petri 2016

 

“Le serenate del Ciclone”, Romana Petri

Neri Pozza Ed

Pagg 592

€ 18,00

 

 

“Ciao: ti disturbo?”. La telefonata dell’amica mi coglie di sorpresa mentre con la mente e il cuore sono a decine e decine di chilometri da casa mia, e ad altrettanti anni addietro: sobbalzo e, approfittando della nostra confidenza, rispondo con un sorriso:“Veramente sì: sto leggendo un libro bellissimo”

Il libro è “Le serenate del Ciclone” (Neri Pozza Ed). Si tratta dell’ultima fatica letteraria di una scrittrice passionale ma tenera, schietta eppure mai irriverente, così sincera da esserlo anche nella finzione narrativa e capace di una scrittura impeccabile e incalzante: Romana Petri. Se non l’avete ancora fatto (e vi siete persi molto), provate a leggere le sue pagine e vi scoprirete del tutto arresi alle storie che racconta, ai suoi personaggi, ai dialoghi sempre perfetti.

Ma questo, rispetto ai suoi precedenti, è un libro particolare, perché in quasi seicento pagine, che volano via velocemente, Romana Petri racconta di un uomo e di un artista speciale, soprattutto per lei che ne è stata (pardon: ne è) la figlia.

E’ la storia di Mario, nato nel 1922 nel casolare dei nonni, in quell’Umbria rurale che era ancora più prossima al 1800 che al ventesimo secolo. Una madre che lo ama a modo suo, cioè imperfetto, un padre distruttivo e violento, un fratellino così diverso per aspetto e indole e così tanto più giovane che quasi se ne sente il padre putativo, Mario sembrerebbe destinato a vendere legna nella sua città, Perugia: ma, come il Pelìde Achille, è molto precoce ed esplosivo nel fisico e nel carattere (non a caso, lo chiamano “Il Ciclone”) e capiamo da subito che sarà artefice del suo sorprendente futuro, Dei dell’Olimpo, ma soprattutto Fato, volendo. Solo adolescente e ancora inconsapevole del suo fascino, Mario comincia quasi per caso a cantare, accompagnato alla chitarra dall’amico Orlando. Non gli sembra vero: lo pagano per fare le serenate, lo pagano per cantare! La voce è magnifica, certo, ma è la sua formidabile capacità interpretativa a conquistare tutti, specie le donne. Mario, infatti, è anche bellissimo: alto, possente, volitivo, geloso, caparbio, facile all’ira come alla tenerezza, incapace di tollerare l’ingiustizia, pieno di vita e di energia, quando il padre compie l’unico gesto d’amore nei suoi confronti regalandogli un grammofono, decide che la sua vita sarà con la musica e per la musica. Anche il nonno materno Damino, vera e solida figura maschile di riferimento della sua infanzia, gli dice “Sei un artista”: Mario non ha bisogno d’altro. Pure nel dubbio che, in sua assenza, le violenze paterne sulla madre si moltiplichino, scappa di casa, lascia la banda di coetanei della quale è il capo e saluta gli amici: su tutti Orlando – che lo aveva  iniziato alle importanti letture che non l’abbandoneranno mai – e “il Kid”, a sua volta bello, forte e carismatico ma, al contrario di lui, glaciale, razionale. Il suo alter ego. Farà molti lavori per pagarsi le lezioni di canto e finalmente, con il cognome d’arte “Petri” e fra mille avventure anche molto pericolose, Mario diventerà un baritono basso famoso e acclamato in tutto il mondo. Ma… basta, non vi dico altro: come è stata la sua vita, prima del successo e dopo, fino alla morte prematura arrivata improvvisamente nel 1985, lo racconta infatti splendidamente il libro del quale ci stiamo occupando, che riunisce una e tante storie e infiniti personaggi, descritti con estrema cura anche quando sono poco più che comparse; alcuni di loro, non importa se si tratti di artisti famosissimi, magari ancora viventi, o di sconosciuti, sono talvolta – e non uso questa espressione a caso – “presi a pugni” dall’Autrice, che non le manda a dire a nessuno; e poi, non certo secondari, ecco i luoghi e gli scenari, davvero tridimensionali (anzi, in 4D: se state attenti, sentirete fra le parole anche gli odori e i profumi, costantemente presenti dalle prime alle ultime righe).

Ero incerta sul da farsi, alla notizia della pubblicazione di questo libro. Parlarne o no? Dell’Autrice avevo già letto altro, e mi aveva incantato, ma questo era un libro su suo padre, e suo padre è stato un artista famoso: insomma, temevo l’agiografia. Però sapevo anche che Romana Petri non è tipo da scrivere, sia pure benissimo, una serie di banalità: così ho preso in mano le sue seicento pagine e non sono più riuscita a lasciarle, con la gioia e il timore di saperne di più sul Ciclone, sul Kid, su Lena e, naturalmente, su Romana. Tuttavia è stato un viaggio che ho compiuto in punta di piedi, sul tappeto vellutato della voce del Padre e su quello, talvolta spinoso, delle parole della Figlia: e ho fatto bene. In fondo, il Pelìde Mario Pezzetta in arte Petri, l’avevo già incontrato che faceva capolino fra precedenti pagine di sua figlia, perché il “Ciclone” non è di certo stato “creato dagli dei” per starsene fra le quinte…

Biografia dell’Autore (dal sito della Casa Editrice)

ROMANA PETRI è nata a Roma e vive attualmente tra questa città e Lisbona. Ha ricevuto numerosi premi come il Premio Mondello, il Premio Roma, il Rapallo Carige, il Grinzane Cavour e il Bottari Lattes. È stata due volte finalista al Premio Strega. Traduttrice, editrice e critico letterario collabora con La Stampa, il Venerdì di Repubblica, Corriere della Sera e Il Messaggero. È tradotta in Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Spagna, Serbia, Olanda, Germania e Portogallo. Tra le sue opere: Ovunque io siaAlle Case venie, I padri degli altri, La donna delle Azzorre, Dagoberto Babilonio, un destino, Esecuzioni, Tutta la vita, Figli dello stesso padre Giorni di Spasimato amore.

Ecco l’intervista a Romana Petri, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina. N.B.: Il sonoro comprende anche la lettura fatta dall’Autrice di alcune pagine del suo romanzo.

Canzone consigliata: L’Autrice suggerisce di guardare su youtube Mario Petri ne “Wolfram”; scoprirete una preziosa testimonianza audio e video, oltre a bei minuti di musica.

 

Giancarla: Partiamo dalla fine del libro, perché nell’epilogo lei spiega la ragione che l’ha spinta a scriverlo, dicendo che questo libro era “urgente”: in che senso? Quale urgenza c’era?

Romana Petri: Era un’urgenza data dalla mancanza: mio padre era morto da già da venticinque anni e questo lutto non si spegneva, era un profondo dolore. Poi c’è stata anche un’altra ragione, e cioè il fatto che un artista, un grande interprete, che sia un cantante o un attore, ha un’unica occasione, che è la vita: vengono “riscoperti” scrittori, pittori, musicisti, ma gli interpreti no. Quindi, a un certo punto mi sono detta: “Ma tu scrivi: perché non dai a tuo padre un’altra opportunità dopo la vita?”. E lui è stato veramente dentro il mio “io” più profondo. Lui non è mai uscito dalla mia vita e ho avuto voglia di stare di nuovo insieme a questo padre perduto, tant’è che è stato un gioco un po’ pericoloso, le confesso, perché ho scritto questo romanzo praticamente senza mai fermarmi, se non per mangiare e per dormire – e dormire anche male e poco – per un anno intero: quando l’ho finito e ho messo l’ultima parola, per me è stato come vedermelo morire un’altra volta, c’è stato un altro lutto, per cui questo libro, quando l’ho finito, l’ho messo in un cassetto dove è rimasto per un anno e mezzo. Poi l’ho riaperto, ho ricominciato a lavorarci sopra, a limare, a togliere e aggiungere: insomma, non è stata una cosa serena. Io ho sempre detto che ho un rapporto molto ludico con la scrittura, ed è vero, continuo a pensarla così: con questo libro ho invece fatto un’esperienza anche dolorosa, che però  mi doveva uscire, lo dovevo fare, non c’è stato verso. A un certo punto ho avuto questa necessità che, oltretutto, ci ha messo tanto a venir fuori, perché dovevo anche decidere in che modo volevo scrivere di questo padre: di libri sui padri, e di bellissimi, ce ne sono molti, però sono un po’ tutti delle “rese dei conti” …

Giancarla: Infatti, quando ho saputo che Romana Petri scriveva un libro su suo padre – sapendo chi fosse stato suo padre – mi sono detta: “Sarà una agiografia? O una specie di deguello…?

R.P.: Una agiografia, alla fine è un po’ una agiografia…

G.: Io credo di no, e lo scopriranno anche i futuri lettori, perché lei “taglia la carne con tutto l’osso”.

R.P.: Ah sì, sì, questo sicuramente!

G.: Appunto. “Però – mi sono detta – Romana Petri cose banali non ne scrive” e quando mi sono trovata davanti a seicento pagine scritte fitte fitte la mia curiosità è cresciuta, perché va bene il “santino”, ma anche un agiografo professionista a un certo punto si ferma!

R.P.: Non c’è dubbio.

G.: Mi incuriosiva scoprire come lei avrebbe costruito il libro, che ha diviso in due grandi sezioni: allora, per aiutarmi nella lettura ho immaginato la prima parte come un romanzo e la seconda come una biografia romanzata. Trova corrette – per quanto semplicistiche – queste definizioni?

R.P.: Direi che questo è senz’altro l’effetto che il libro fa al lettore, anche perché il racconto comincia dopo la nascita di mio padre e finisce con la sua morte: quindi è evidente che in tutta la prima parte, che finisce con lui che si sposa con mia madre, io non ero neanche una ipotesi! Sicuramente, se avessi dovuto scrivere con molta asciuttezza e secchezza le cose che lui mi ha raccontato, con trenta o quaranta pagine avrei risolto la situazione. Le due parti del libro sono più o meno della stessa lunghezza, ma la corposità della prima è data dalla capacità “fosforica” di mio padre di avermi incendiato il cervello. Lui era così, mi raccontava cose che io mi rimasticavo, me le rimuginavo nella testa e, soprattutto, le proiettavo: fin da piccola, dopo averlo ascoltato, avevo l’abitudine di buttarmi sul letto a pancia all’aria e rivedermi i suoi racconti sul soffitto, come fossero un film.  Erano racconti che riguardavano la sua primissima infanzia, così arcaici, così violenti, così truculenti riguardo suo padre: e poi le gesta, così eroiche ai miei occhi di allora (e questo ho cercato di restituire al lettore: i miei occhi di allora), di questi ragazzi di belle speranze, la gioventù prorompente, il senso dell’amicizia, il voler conoscere e sapere nonostante si venga da una estrazione sociale più bassa… La forza e il coraggio di fuggire di casa a mio padre sono venuti a diciassette anni: è arrivato a Roma senza neppure sapere dove andare, con il fagottino, per cercare chi potesse dargli lezioni di canto e pagarsele facendo il pugile peso massimo e il modello per i pittori di via Margutta, cantando nei night, giocando a biliardo … Cose di un altro mondo: di quando il mondo era giovane, di quando le speranze erano realizzabili, di quando si poteva decidere di voler “essere qualcosa” e, con determinazione, forza e coraggio e soprattutto con la volontà – che è quella che nella vita ci crea i bisogni – riuscirci. Straordinario. Quindi mi sono rimescolata tutta questa vita, questo venire da una zolla della terra e arrivare alla Scala, cantare con Von Karajan: diventare quello che lui aveva sempre sognato. Sicuramente, tante cose sono state aggiunte, ma a quello che a lui mancava perché non era “scrittore”, ma era “interprete”, ecco! Nella seconda parte, certo, ci sono io, però nel libro, fino a che non ho un’età in cui si possono avere i ricordi (e quindi in tutta la prima parte e nella prima parte della seconda) sono tutti fatti ricordati da qualcun altro.

G.: Ho detto fuori onda alla Signora Petri – e siccome mi assumo la responsabilità di quello che faccio lo ripeto anche adesso – che è un “tipo tosto”. Infatti, dopo avere letto il libro le chiedo: non sarebbe stato più semplice, pensando alla costruzione del romanzo, trasformare anche la seconda parte in una biografia “romanzata”? Non sarebbe stato meglio, visto lo struggimento e il senso di vuoto che lei prova e che si avverte benissimo nelle sue pagine, cercare di alleggerire la sua posizione invece di “salire sul ring” (e non uso a caso questa espressione)? Insomma: non ha chiesto un po’ troppo a se stessa?

R.P.: …Sa cos’è? E’ che è venuto spontaneo… In realtà, nella seconda parte (che può sembrare una biografia solo perché c’è un “io narrante” che dice: “Io, Romana”) avrei potuto dire che “… il tale giorno Lena partorì una bambina alla quale venne dato nome Romana…” e continuare a scrivere col narratore in terza persona: ma avrei scritto le stesse cose! …Solo che scrivendole in prima persona ci ho aggiunto “le trippe”.

G.: … E i “precordi”…

R.P.: Sì, i precordi! E quindi “sentivo” che questo doveva essere un romanzo “trippesco” e viscerale: dovevo tirare fuori questo desiderio, dovevo sciorinare questa necessità di… di amore verso quest’uomo, che ho veramente amato moltissimo e dal quale non c’è dubbio che sono stata anche molto riamata, pur non avendone in realtà fatto un santo, perché vengono fuori anche tanti suoi difetti. Però questo è un libro sul fascino, sulla tragicità del fascino: certe volte, nella vita incontriamo persone buone, educate, gentili, carine, civili, eppure su di loro non scriveremmo mai un libro; invece, quando dietro a tutti i problemi e le difficoltà caratteriali c’è questa cosa “mostruosa” che è il fascino puro, malgrado i tanti difetti (grazie al cielo, lui si conosceva da sé e a volte diceva: “Io sono il difetto”), queste persone imperfette sono le persone più rimpiante. C’è una ingiustizia anche in questo…

G.: Beh, diciamo che, leggendo Romana Petri, si potrebbe dire “E’ il Fato”…

R.P.: Sì, sì: il Fato, infatti … Lo hanno voluto gli dèi…! Hanno voluto che ci fosse l’incontro siderale fra me e questo padre, un incontro che sembrava già scritto, predestinato, perché il nostro è stato proprio un incontro… d’anima, ecco! Noi ci intendevamo molto bene, nonostante le furie che a volte ci prendevano e che ci travolgevano: non c’è stata persona al mondo con la quale io abbia litigato di più, ma ciò nonostante erano liti furibonde che finivano in risate fino alle lacrime. E questo vorrà pur dire qualcosa! Non c’era il rancore, ecco.

G.: Certo: c’era l’amore e non c’era spazio per altro… Quello che mi colpisce sempre nei suoi libri, ed è così anche per questo, sono i dialoghi: perfetti, fulminanti. Resto ammirata dalla sua padronanza del linguaggio: i dialoghi potrebbero facilmente diventare la sceneggiatura di un genere che amo molto ma, ahimè, non si usa più, il radiodramma.

R.P.: Sapesse quanti radiodrammi ho scritto, per la RAI!

G.: Eh sì, lo so! Però in questo caso c’era una difficoltà in più: scrivere in dialetto (anzi, in più dialetti) e addirittura rendere le diverse sfumature fra la parlata della città e della campagna. Magari io la chiamo “difficoltà” e invece lei – che, come ha detto prima, ha scritto di getto – lo ha trovato del tutto naturale…

R.P.: Mi è venuto naturale, perché mi considero uno scrittore “inconsapevole”, nel senso che quando mi siedo davanti al computer non so quello che farò, non programmo niente, non faccio mai un programma su un libro, mai: mi siedo e comincio a scrivere, finendo quando sento per quella giornata non ho altro da dare e mi risiedo quando ho di nuovo voglia di scrivere, ma non so che cosa scriverò; c’era già il dialetto nella prima parte, però non era molto uniformato. Il lavoro di limatura, che ho fatto dopo un anno e mezzo, è stato soprattutto per il mio desiderio profondissimo di riportare non tanto un dialetto (di parole poco comprensibili ce ne sono poche, è un dialetto comprensibilissimo), ma la cadenza umbra, che mi è molto cara: soprattutto mi sembrava veramente impossibile far parlare dei contadini degli anni ’20 del ‘900 con un italiano uguale al nostro, sarebbe stato molto poco verosimile. Poi, nella seconda parte ci sono gli incontri “romani” e … vabbè, lì era più semplice!

G.: Lei dice “Io dovevo scrivere di mio padre”: ma chi abbia letto i suoi libri lo sa, sa che lei ha già scritto di suo padre…

R.P.: Certo.

G.: Che cos’era? Suo padre che doveva comunque trovare il modo di uscire, prima o poi, nei suoi libri? E’ stata una specie di inconsapevolezza, una sorta di scrittura automatica?

R.P.: Mah, questa morte improvvisa mi segue da trent’anni (anzi trentuno, perché il 26 gennaio 2016 sono stati trentuno anni dalla sua morte) e c’era in me un desiderio forte di fare fuoriuscire il dolore per questa perdita. Mio padre è apparso in “Tutta la vita”, “Alle case venie”, “Esecuzioni”, “I padri degli altri”…: è come se mio padre avesse voluto uscire fuori già prima, ma io non fossi totalmente pronta. Io non ero ancora in grado di dire “Questo che è morto era il mio di padre”: così era il padre di Alcina, era il padre della protagonista di “Esecuzioni”, Lulù. C’era la necessità di nascondersi dietro un palo, che non ci nasconde però del tutto: alla fine, dopo tanto, tanto tempo, questa cosa l’ho proprio maturata ed è stata veramente una necessità, una specie di… di gonfiore che a un certo punto ho dovuto bucare con un ago. E’ venuto fuori tutto, in modo fluviale. Come le dicevo, ho scritto in modo tempestoso: avevo foglietti dappertutto, in bagno, in cucina, in camera da letto… Ci sono state volte in cui finivo di scrivere all’una di notte: andavo a dormire e, nel momento in cui mi veniva il sonno, mi nasceva un’idea. E lì mi facevo sempre la domanda cruciale: “Mi alzo e mi rimetto al lavoro, o questa idea è così forte che me la ricorderò?”. Ogni volta che mi sono detta “me la ricorderò”, me ne sono dimenticata… Così, mi alzavo spesso.

G.: Questo è un libro che compromette il lettore: leggendolo, pensavo che magari avrei avuto, come sta succedendo, il piacere e il privilegio di parlarne con lei e quindi ho provato anche il pudore di chiedermi quali argomenti toccare per non essere invadente. Però, in conclusione, due domande devo fargliele: una è molto personale. Suo padre le ha lasciato molto, in termini di arte, di capacità di confrontarsi con la realtà, di amore, di discutere di ogni cosa (… anche di “Orzowei”!):  in che cosa lei pensa di ritrovarlo oggi, nella sua quotidianità? Che cosa le è rimasto, soprattutto?

R.P.: Un dialogo costante con questo padre. Molto spesso mi capita, in modo direi veramente demenziale, che se mi accadono delle cose mi dico “Questa gliela devo proprio raccontare!”: poi mi fermo e mi dico “Certo: nel tuo modo”. Per anni ho avuto la tentazione di chiamarlo… E poi, queste morti improvvise lasciano dei vuoti veramente incolmabili, perché, paradossalmente, nonostante tutto l’amore che ci siamo scambiati, una morte improvvisa è un tradimento. Per questo nei miei sogni lui se ne è sempre andato, è scomparso, non si sa dov’è… Qualche volta rimedio un suo numero di telefono, lo chiamo e mi risponde una donna: probabilmente è un’altra moglie, un’altra figlia, comunque un’altra famiglia. E quando sento la sua voce, lo sento molto distante. Mi è successo soprattutto i primissimi tempi dopo la sua morte improvvisa, perché l’ho vissuta come un tradimento: “Te ne sei andato. Mi hai lasciato…così”. Lo dico alla fine del libro, nelle ultime parole del romanzo prima dell’epilogo: “Sono sola: non mi proteggerà più nessuno.” E questo è stato veramente quello che ho pensato in quel momento e per tanti anni: poi, con l’età più matura, sono arrivata a dire “Sei morto: non mi proteggerà mai più nessuno, ma mi proteggo da me”.

G.: Beh, suo padre le ha anche insegnato a proteggersi da sola, come si legge nelle pagine del libro! L’altra cosa che vorrei chiedere riguarda la questione mito e archetipo.

R.P.: Sì, ci fu una serata in cui Sergio Leone mi lasciò queste parole…

G.: Esatto. Suo padre è stato questo, ovviamente: mito e archetipo

R.P.: Totalmente, totalmente. Quando ho imparato a scrivere, la prima cosa che ho scritto è stata una poesia (mia madre ancora conserva le poesie che scrivevo a sei anni); una di queste cominciava così: “Mio padre è un Eroe, fa la guerra”. E del resto, per  una bambina di due, tre, quattro anni, vedere il padre che un giorno è Achille, un giorno Agamennone, un giorno è Faust, un giorno è Don Giovanni, poi è Barbablù, poi è Macbeth, poi è altre mille cose nel cinema, non è come vederlo tornare a casa dall’ufficio o dallo studio di medico o di avvocato: io lo vedevo in costume, truccato, aveva una stanza con un armadio solo per i suoi costumi! Sono cose che lasciano un’impronta gigantesca. Oltretutto, lui era un uomo enorme, imponente… Era sempre in scena: anche quando era mio padre, dentro casa, non era una persona anonima, che passava inosservata. Era sempre una specie di semidio. Nel romanzo parlo di quando mi raccontò l’Odissea in un modo bellissimo, straordinario: sentirsi raccontare l’Odissea stando sulle spalle del proprio babbo che nuota in mare all’alba è una cosa veramente struggente, che mi è rimasta dentro. Nel romanzo dico che da bambina l’ho voluto vedere come Odisseo e non come Achille perché sapevo che Achille muore giovane e quindi preferivo immaginarlo come Ulisse, che però non aveva per nulla il temperamento di mio padre. Mio padre era proprio Achille: era il “biondo con l’anima bruna”, per intenderci, era un cantore, aveva un animo delicato, sapeva che cosa significasse il dolore, sapeva e poteva anche piangere (cosa che sia Achille, sia Odisseo fanno, perché, grazie al cielo, gli eroi omerici sanno piangere). Odisseo era un uomo che calcolava: mio padre non è mai riuscito a calcolare. Secondo me, mio padre era come quello che andava alla guerra talmente di fretta da dimenticarsi a casa scudo e spada: lui era così, capace di andare sul campo di battaglia con le mani nude.

G.: … Perà a patto che gli venissero addosso tutti insieme, non uno alla volta!

R.P.: Eh no, non uno alla volta!

G.: Abbiamo finito: come posso ringraziarla?

R.P.: Sono io che ringrazio voi, che mi avete chiamato e mi avete fatto parlare di lui: ogni volta che parlo di lui, mi passano le malinconie…

G.: Grazie. Però siamo anche curiosi di sapere che cosa di suo leggeremo prossimamente: starà sicuramente lavorando a un nuovo libro…

R.P.: Sì, sto lavorando su due fronti, dovrò decidere: probabilmente – non ne sono ancora sicura- racconterò le avventure di un cane (altro elemento che compare nei miei romanzi con grande frequenza), però non racconterò le avventure del cane che ho amato di più nella mia vita: racconterò le avventure di un cane che il destino ha messo sulla mia strada e che mi ha rovinato la vita. Comunque, sarà un romanzo sull’idea che, per quanto noi li amiamo, non li ameremo mai quanto loro amano noi.

About Giancarla Paladini

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