“Sassofoni e pistole”: chiacchierata con Franco Bergoglio

bergoglio franco foto“Sassofoni e pistole”, Franco Bergoglio, Arcana Editore

Collana Arcana Jazz

pp. 330

17,50 euro

 

 

 

“Sassofoni e pistole”

“… Il locale di Stan è buio e molto fumoso: così fumoso che insieme al fumo ti saresti aspettato almeno un po’ d’arrosto, anche a giudicare dall’odore che vomitano tendaggi e poltroncine. Ai tavolini si intrecciano corpi e vizi, mentre una cantante dai capelli infinitamente rossi sussurra “Stormy weather”, appesa al microfono: o forse è il microfono a non volerla mollare per rimanere avvinghiato a quelle curve, così curve da fare dimenticare che esistono anche i rettilinei.

Gli occhi di tutti sono tutti su di lei, mentre il pianista la accompagna annoiato, la sigaretta accesa all’angolo della bocca.

La sua ombra si squaglia sul mio tavolo e lei sembra cantare in esclusiva per me, ma io penso solo che il pessimo bourbon che Stan mi ha versato per la terza volta, annegandolo nel ghiaccio, potrebbe essere dell’ottimo wisky della stessa età della rossa tuttacurve,  se Bud l’allibratore non si stesse godendo i miei ultimi cinquanta bigliettoni. Ma così va la vita del sottoscritto Jack Goodhope, detective privato (di tutto: soldi, lavoro, reputazione). Ho gettato il trench sulla poltroncina inzuppata di puzzo di arrosto, per non pagare al guardaroba i cinque dollari che non ho, e mi tengo il Borsalino che, come la mia testa stasera, ha visto tempi migliori.

L’assolo strappacarne del sax dovrebbe concludere in gloria la canzone e rimandare a casa questa manica di perdinotte, ma un colpo di pistola mi fa capire che non è solo la musica ad avere finito il suo tempo.

I viziosi ai tavoli scappano come galline impaurite, mentre Stan e il pianista spariscono nel buio con la stessa velocità dei dollari dalle mie tasche: solo io, Jack Goodhope, rimango calmo vedendo che la rossa che poco prima cantava come un angelo ora è andata direttamente dagli angeli, a cantare. E nemmeno le serve il microfono…”

Queste righe, se avete avuto la benevolenza di leggerle tutte (magari immaginando che a raccontarle sia la voce mitica del grandissimo Emilio Cigoli, doppiatore storico di Humphrey Bogart), non sono l’inizio di un mediocre romanzo hard boiled anni ’50, ma un divertissement della sottoscritta per introdurre il bel saggio di Franco Bergoglio, “Sassofoni e pistole: storia delle relazioni pericolose tra jazz e romanzo poliziesco” (Arcana Editore)

In effetti, nel mio piccolo gioco hard boiled compaiono alcuni degli ingredienti fondamentali sia di quel genere di noir, sia del suo connubio con il jazz, che l’Autore ci racconta e spiega con estrema dovizia di particolari, ovvero: il night di bassa categoria, l’atmosfera fumosa e gravida di peccaminose presenze, la cantante fatale, il pianista disincantato, il sassofono, il jazz, il delitto e l’investigatore privato. Il tutto, raccontato con il gusto per il paradossale e la prosa enfatica.

Naturalmente Franco Bergoglio, scrittore e giornalista, profondo conoscitore del jazz, riporta esempi illustrissimi di grandi Autore di genere: statunitensi, come ovvio, ma anche europei e italiani, questi ultimi benissimo raccontati in un interessante capitolo loro dedicato.

Ne risultano pagine zeppe di citazioni musicali e letterarie, e la bravura dell’Autore sta nell’essere riuscito a fornire mille indicazioni non solo senza risultare noioso o saccente (pericolo sempre in agguato nella saggistica), ma addirittura invogliando il lettore ad ascoltare i brani, i musicisti e, magari, a leggere i romanzi segnalati: impresa, quest’ultima, del tutto impossibile, dato il numero elevatissimo di pubblicazioni.

Alla fine il libro riserva al lettore un bel colpo di scena, come necessario se si parla di detectives e noir: non ve lo anticipo, naturalmente, limitandomi ad aggiungere che si tratta di un ulteriore motivo per non perdere questo libro intelligente e colto.

L’AUTORE: Franco Bergoglio, saggista, scrittore, collabora con numerose riviste e siti. Ha scritto Jazz! Appunti e note del secolo breve (Costa & Nolan, 2008) e Magazzino Jazz (MobyDick, 2011).  Suoi contributi sono comparsi nei volumi collettivi La comunicazione politica (2001), Jazz e comunicazione (2006), Machiavelli teorico delle crisi (2014).  Il suo blog è www.magazzinojazz.it.

Ecco l’intervista a Franco Bergoglio, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina; nella parte finale l’Autore legge e commenta alcuni passi della sua opera.

Canzone consigliata: lo standard jazz che preferite. Con l’Autore abbiamo scelto “Stormy weather” o un brano di Miles Davis a piacere.

 

Giancarla: Il suo libro racconta di questa relazione pericolosa (anzi: relazioni pericolose) tra jazz e romanzo poliziesco: quando comicia questa relazione e perchè è pericolosa?

Franco Bergoglio: Beh, ho giocato sui luoghi comuni della letteratura noir. Questa relazione nasce negli anni ’20, quando il jazz muove i primi passi adulti e quando anche la narrativa americana noir e il suo sottogenere hard boiled, che forma l’ossatura del giallo contemporaneo, ha mosso i primi passi, insieme al jazz in America: si può dire che data e luogo di nascita sono comuni, ovvero gli anni ’20 e l’America. Anche il giallo all’inglese (cioè alla Agatha Christie) ha avuto poi molti rapporti con la musica afroamericana: ovviamente in maniera indiretta, cioè mediata dalla cultura europea.

G.: Questo intreccio è dovuto a una casualità, cioè una casuale contemporaneità, o c’è una affinità reale?

F.B.: C’è una affinità reale, che ho tentato di spiegare nel primo capitolo del libro. Nel giallo all’americana si va a cercare il colpevole attraverso un processo in divenire; l’Autore di questo genere spesso non sa come andrà a finire la storia e quello che ci tiene incollati alle pagine dei grandi narratori americani non è tanto lo scoprire il colpevole (che è invece il meccanismo del giallo all’inglese, cioè capire come è stato commesso l’omicidio), ma arrivarci pagina dopo pagina, cercando di capire come il nostro eroe, il detective solitario che gira i bassifondi con impermeabile e cappellaccio, arriva a trovare la verità. La ricerca della verità tramite una via improvvisata e un percorso che non è ben definito da un tema di partenza, ma arriva alla fine del brano, è un procedimento del jazz. L’ho spiegato dettagliatamente nel libro anche indagando qualche piccolo riferimento filosofico (sempre senza appesantire la scrittura).

G.: Mi perdonerà se l’espressione che sto per usare non è elegantissima, ma possiamo dire che lei abbia vivisezionato anche i cliché: in effetti, se si pensa al jazz vengono in mente atmosfere fumose, locali un po’ equivoci…Ma davvero questi cliché si ritrovano nelle figure storiche di quella letteratura e del jazz?

F.B.: Mi piace molto l’espressione “vivisezionato”, perché è proprio quello che ho fatto: io ho usato quella, molto simile, di smontato. In effetti ho smontato i meccanismi narrativi, cioè sono entrato nella mente degli scrittori per capire perché utilizzassero quei colpi di scena, perché avessero inserito quella musica e in quel determinato momento, perché abbiano voluto far appassionare tanti detectives alla musica jazz… Smontare il cliché del locale fumoso, della cantante bionda o rossa che si esibisce in un locale dove si fa del jazz, è stato uno dei momenti più divertenti di questo lavoro: in un certo senso sono stati i cliché a guidare molti dei capitoli, a indirizzare la mia ricerca. Molti luoghi comuni nemmeno me li aspettavo: ad esempio, il pianista che accompagna la bionda o la rossa è un personaggio che ha una sua dignità nel romanzo e anche nella vita reale; molti sono stati i grandi pianisti di jazz che hanno accompagnato le cantanti e nei romanzi la figura del pianista con la sigaretta perennemente accesa, sempre un po’ ironico nei confronti della cantante, ha suggerito un romanzo molto bello di David Goodis, Sparate sul pianista.

G.: La cosa molto divertente è che il pianista è forse l’unico rappresentante del genere maschile che non sembra turbato dalle conturbanti presenze femminili…

F.B.: E’ vero: e oltre al romanzo di Goodis ce ne sono stati altri centrati su questa figura un po’ fredda che probabilmente permette al narratore un linguaggio più distaccato; in altri casi abbiamo sassofonisti che commettono delitti, detectives che suonano il sassofono nel tempo libero… Sono molto usuali le figure che amano gli strumenti a fiato o anche la batteria: c’è un detective che suona il contrabbasso, ma questa è una cosa… “post-moderna”…

G.: Voglio dire ai futuri lettori di questo libro, imperdibile se amate la musica e il genere e, comunque, se volete imparare qualcosa, che ci si trova anche… Jessica Rabbit! Davvero lei ha spaziato in tutto quello che si poteva descrivere: ma si tratta di un lavoro pazzesco. Quanti anni ci sono voluti per finirlo?

F.B.: Otto: effettivamente è stato un lavoro lungo, nato da scommessa fatta con un giallista americano per il quale avrei dovuto dimostrare la mia tesi secondo cui il jazz e il noir hanno una relazione con dei dati statistici. E’ stata una specie di folgorazione che mi ha illuminato: la ricchezza che poi ho trovato è stata anche troppa, più di quello che avrei mai pensato. E poi c’è stata la questione del cliché, che già Umberto Eco aveva applicato al romanzo popolare ottocentesco o al fumetto e che io ho applicato al giallo andando anche a recuperare i volumi degli anni ’50, quelli che oramai vendono solo le bancarelle dell’antiquariato e puzzano anche un po’ di muffa, ma a loro volta indicatori di un’epoca storica. Nel libro cito alcuni romanzi che secondo me sono capolavori assoluti del ‘900: qualcosa di James Ellroy, sicuramente tra i nomi epici della letteratura novecentesca, e poi, invece, qualche romanzo che francamente è stato, a ragione, dimenticato… ma parlava di jazz e per il mio lavoro era utile.

G.: Nella sua introduzione, lei ha ovviamente parlato degli Stati Uniti, ma nel libro si valuta la situazione in altre località del mondo e dell’Europa e c’è, anzi, un interessante capitolo dedicato all’Italia: dunque, in Italia come stanno le cose?

F.B.: Come nel resto d’Europa e del mondo: il rapporto fra jazz e il noir, o giallo, o thriller che dir si voglia, è un fenomeno mondiale. Il jazz non appartiene più solo agli Stati Uniti ma risuona in tutto il mondo ed ha prodotto delle scuole, come il giallo. Noi abbiamo una scuola giallistica italiana, ma, avendo l’Italia un grande senso dell’autonomia, del locale, tanto che le scuole sono regionali, se non, addirittura, cittadine: abbiamo la grande scuola di giallo milanese, un’altra molto forte a Bologna, ci sono giallisti nella mia città, Torino, ci sono giallisti a Genova. I giallisti italiani, come quelli del resto del mondo, hanno spesso e volentieri inserito del jazz nei loro romanzi: tra gli esempi più noti, posso citare Massimo Carlotto, che nel suo nuovo romanzo (“Per tutto l’oro del mondo”, Ed E/O: n.d.r.) parla di una cantante, oppure Carlo Lucarelli e “Almost Blue”, uno dei suoi romanzi più belli, che ha tantissime pagine dedicate al jazz, a partire dal titolo e dall’atmosfera che fa da sfondo a tutto il romanzo; ma anche Camilleri, che non lo ha utilizzato per Montalbano, in realtà è un appassionato di jazz e lo ha intrufolato in altre storie.

G.: Sempre parlando degli Autori italiani, posso farle una domanda simile a quella di prima? Cioè: sono condizionati dal connubio noir-jazz, o davvero esiste un legame spontaneo?

F.B.: Gli scrittori italiani lo utilizzano in modo del tutto simile a quello della scuola europea di giallisti: sono simili ai francesi o ai nord-europei. Gli scrittori spesso utilizzano il jazz come fosse un meccanismo utile alla loro trama, per connotare dei personaggi particolari o gli stati d’animo o per avere una pagina liberatoria all’interno del libro, un momento di riposo dalla trama: non si può andare avanti a morti ammazzati per centinaia di pagine! Per avere un momento di tregua nella narrazione, al protagonista fanno suonare il sassofono o gli fanno ascoltare un cd. Solitamente i giallisti sono appassionati di jazz o di blues – e questo è sicuramente vero nel caso di Lucarelli, molto più appassionato al blues che al jazz -, trasferiscono sui personaggi i loro gusti musicali e, fortunatamente, lo fanno partendo dalle cognizioni di base: per esempio, il jazz che si sente nei romanzi di Lucarelli può essere un grande classico di Chet Baker, mentre Grazia Verasani, che fa sempre parte della scuola di Bologna, cita musicisti bolognesi, le scuole locali. Jean Claude Izzo, che ha  scritto la splendida Trilogia marsigliese, cita musicisti di jazz internazionali, ma (il suo commissario: n.d.r.) Fabio Montale è appassionato di Petrucciani, o va a sentire Aldo Romano nei locali: sono musicisti che Izzo avrebbe potuto ascoltare nei locali di Marsiglia, li ha sicuramente ascoltati, e poi trasferiti al suo personaggio.

G.: Lei sfiora anche la questione relativa al perché i giallisti preferiscano il jazz al rock: lasciamo questo e altri aspetti del ragionamento al piacere della lettura, così come il finale del libro, decisamente a sorpresa. Ma lei davvero ha letto tutti i volumi che cita?

F.B.: Beh, devo essere onesto: sicuramente non ho letto per intero tutti i libri che mi sono serviti per scrivere il libro e che sono molti di più di quanti ne abbia riportati. I libri che in realtà ho letto sono tantissimi; quelli che ho consultato sono più di mille. Devo ammettere che il fiuto del detective che mi è venuto sfogliando libri gialli mi ha permesso di capire a colpo sicuro dove avrei trovato i riferimenti e le citazioni che mi servivano: dove compariva il locale notturno, dove il detective poteva ascoltare quel tal brano… Ne ho sfogliati moltissimi, ma non li ho letti tutti…

G.: … Meno male!

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