Questa è una storia vera: Boby

Questa è una storia vera: Boby

Stavano aspettando che il padre venisse a prenderle, sua madre e lei, quando si accorsero che un cagnolotto le aveva seguite fino al luogo dell’appuntamento. Come tutti i bambini, spasimava per avere un cane, ma sua madre, di solito fin troppo remissiva, su una cosa non transigeva: in casa, niente cani o gatti. E quando sua madre si intestardiva nessuno – neppure suo padre, che pure era abituato a fare e disfare ogni cosa a capriccio – poteva smontarla. Il cagnolotto era di taglia medio-piccola ed era un bel meticcio che somigliava ad un collie. Era uno di quei cani pronti al sorriso ed era un cane perso o scappato, chissà, ma certamente veniva da una casa, aveva lasciato una famiglia: infatti indossava un collare un po’ liso, che però non forniva nessuna indicazione sulla sua provenienza, il nome, o qualunque altra traccia potesse permettere di riportarlo là, da dove era venuto.

“Non accarezzarlo: è sporco! E poi non si accarezzano i cani che non si conoscono: possono mordere!” le intimò la madre: ma a lei non sembrava per niente pericoloso quel cagnolotto che, appena aveva accennato a volerlo accarezzare, le si era precipitato incontro, sorridente appunto, e tutto scodinzolante (avrebbe poi imparato che una delle maggiori abilità del cagnolotto era scodinzolare vigorosamente ogni volta che poteva); quanto alla sporcizia, aveva un pelo così morbido che sporco proprio non le sembrava: ma, onestamente, la bambina di cani non se ne intendeva e quindi, obbediente, ritrasse la mano…  Suo padre (che a sua volta da sempre avrebbe voluto un cane, senza essere mai riuscito a spuntarla) arrivò una decina di minuti dopo: “Di chi è questo cane? Ciao! Come ti chiami?” chiese allo scodinzolante cagnolotto, e intanto già lo stava accarezzando. “Ci ha seguite, papà! Lo portiamo a casa?”.

Era stata cresciuta con regole molto severe e sapeva che c’erano cose che era inutile chiedere, oltretutto senza dire “per piacere”: avere un cane era la più inutile di tutte, ma per una volta sperava in suo padre, e non si sbagliava. “Sembra tranquillo: ora lo chiamo e se risponde lo portiamo a casa”, azzardò lui. “… Ma solo per dargli da mangiare e poi lo lasciamo andare, chiaro?” Sua madre non perse la battuta e già le sembrava di avere concesso fin troppo, ma del resto era abbastanza sicura che il cane non avrebbe capito il richiamo e tutto sarebbe finito senza conseguenze. Invece… “Boby, su, bello!” e il cagnolotto saltò in un attimo sul sedile posteriore dell’auto. “Lo portiamo a casa, lo portiamo a casa!” La bambina non stava più nella pelle: Boby (un nome a caso e nemmeno troppo originale, ma a quello aveva risposto e “Boby” sarebbe rimasto) era tranquillo e si comportava come se per lui andare in auto fosse un’abitudine. Arrivati a casa, gli amichetti del piano di sotto le dissero: “Che bello il tuo cane! Come si chiama?”“Boby”, rispose la bambina, con un misto di orgoglio e anche di vergogna e di tristezza, perché sapeva che quello non era il suo cane, né lo sarebbe mai stato: a meno di un miracolo, ovviamente.

Boby entrò di corsa in casa e, sempre scodinzolando, cominciò a esplorarla; per la verità, sembrava stesse cercando in particolare qualcosa, che infatti trovò subito: il bagno. Si sedette davanti al bidé e guardò verso gli umani, che però non lo capivano: l’unica cosa che potevano fare era aprire il rubinetto e infatti il padre lo aprì. Appena l’acqua cominciò a scorrere, Boby si mise a bere avidamente: era la prima settimana di luglio, faceva molto caldo e lui da chissà quanto aveva questa arsura. Bevve tantissimo e poi uscì soddisfatto dalla stanza. “Sei un cane civilizzato”, disse il padre, accarezzandogli la testa. “Ma quale civilizzato: che schifo! Ora devo disinfettare tutto! La prossima volta deve bere in una bacinella, ma che scherziamo?!”. La madre continuava a resistere. “E tu, làvati le mani e vieni a tavola! E lascia stare quel cane!” ordinò alla bambina con voce perentoria. “Ma Boby che mangia?”. Eh già: che cosa avrebbero dato da mangiare a quella bestiola magra-magra, tutto pelo, sorrisi e scodinzolii? La bambina sapeva che i cani mangiano gli ossi: o, almeno, Pluto, Rin-tin-tin e Lassie, gli unici cani di cui avesse una qualche cognizione, sembravano felici solo con un bell’osso fra i denti e a lei non risultava che avessero ossi in casa. “Gli ho fatto la pasta (…e ci ho messo un po’ di macinato dentro: ma non dirlo alla mamma, sennò chi la sente…!)”.

Suo padre le parlò sottovoce, facendo l’occhiolino. La bambina aveva nove anni e quella le sembrava la prima e unica volta in vita sua in cui il padre fosse mai stato suo complice: di solito lo era la madre e lui era quello cui obbedire e basta…

Boby, neanche a dirlo, spazzolò tutta la pappa che gli avevano messo davanti e quasi si mangiava anche la carta che la conteneva, tanto era affamato. Un’altra bella sbevazzata di acqua e poi, con somma gioia della bambina, si accucciò con la testa sulle zampe incrociate, in un gesto che a lei sarebbe subito diventato familiare, e il corpo sopra i suoi piedi. Incantata e intenerita, lei rimase lì, immobile, per non disturbarlo: non si sa quanto tempo passò, ma fu sufficiente a farle venire le formiche nelle gambe. Intanto, sentiva i suoi parlare in cucina: “Guarda che non scherzo: se ne deve andare, e subito! Cani in casa non ne voglio!” “Va bene: domani – il padre cercava di guadagnare tempo – chiedo in giro se qualcuno ha perso un cane. Ma non sarà facile…”. “Non domani! Subito! Cerchiamo qualcuno che se lo prenda alla svelta! Hai capito?!”. Le sembrava che tutto andasse alla rovescia: di solito, chi dava ordini perentori era suo padre e la madre abbozzava; ora invece era lei a comandare e il padre sembrava non suo marito, ma un altro figlio da mettere in riga.

Boby restò e la bambina cominciò a sperare che si sarebbe fermato per sempre perchè, un paio di giorni dopo, suo padre portò a casa una cuccia di faesite. Gliela aveva regalata un collega che aveva avuto per tanti anni un cane, la cui morte lo aveva così addolorato da fargli decidere che non ne avrebbe voluti altri; ma fortunatamente non se l’era sentita di buttare via la cuccia, che ora sarebbe stata “l’appartamento” di Boby. La cuccia venne messa in balcone e Boby, dopo una veloce annusatina che, evidentemente, lo aveva convinto, ci si accomodò come se l’avesse sempre fatto. L’effetto era comico, così comico che persino la bambina se ne accorse e attaccò a ridere: la cuccia era un po’ piccola per Boby, tanto che la testa gli rimaneva fuori, e più che un cane nella cuccia pareva una tartaruga nel carapace; ma a lui non sembrava importare e se ne stava lì, la solita testa appoggiata sulle zampe incrociate, a sonnecchiare beato. E lei scrisse con le tempere in stampatello maiuscolo il nome “BOBY” sopra la porticina, giusto per chiarire bene le cose.

Il malumore della madre, intanto, cresceva poderosamente, anche perché Boby, che aveva un manto rossiccio mesciato di bianco diventato in pochi giorni lucido e setoso, disseminava per casa tantissimo pelo. “Deve stare fuori! In balcone! Ma quando se ne va, questo cane?!”. La bambina era attonita e non la riconosceva più: dove era finita la mamma più bella e buona del mondo, che lei adorava? Chi era questa donna sempre nervosa, che sbatteva piatti e porte a tutto andare?

Vivevano in affitto e, secondo una consuetudine di quegli anni lontani, ogni mese i padroni di casa (un ragioniere e sua moglie) andavano di persona a riscuotere l’affitto: era brava gente che non voleva ficcanasare, ma solo instaurare buoni rapporti con gli inquilini cui, comunque, faceva piacere mostrare quanto bene tenessero l’appartamento. Che la madre fosse esasperata, lo dimostrò il fatto che, abbandonando la sua consueta riservatezza, si confidò inopinatamente con i due ospiti. Non c’erano vincoli che impedissero di tenere in casa un animale, ma la “marescialla” (come, non senza malizia, nel condominio veniva chiamata la signora a causa della sua assertività) non doveva essere contenta della presenza di Boby; infatti disse subito al marito: “Ma tu non conosci quel contadino che ha tanti cani, che è un appassionato? Perché non gli chiedi se si prendono questo qui?”.

Quella donna… La bambina l’avrebbe strangolata: ma perché non si faceva i fatti suoi? Si strinse a Boby, che dormicchiava nella sua solita posa, e le mancò il fiato quando, al momento dei saluti, il ragioniere disse: “Bene: allora parlo con quel signore e vi faccio sapere”. La sentenza era emessa: Boby se ne sarebbe andato. Non era abituata a discutere le decisioni dei suoi, ma quella volta pianse, implorò, urlò e si chiuse in camera sua, prendendo anche due sculaccioni per come si stava comportando, ma così facendo sperava di convincere i suoi a non dare via il suo cane. Tutto inutile. Non aveva convinto sua madre, suo padre si era arreso e Boby se ne sarebbe andato. Era con loro solo da un mesetto, non di più, ma lo amava profondamente: amava come le veniva incontro festante e scodinzolando scompostamente, amava come le dormiva sui piedi, amava vederlo felice rincorrere la pallina che gli gettava (e che lui non le riportava mai indietro) …

Fu suo padre a portarlo da quel tale: in lacrime lei salutò Boby, che non capiva e la leccava festoso, sempre scodinzolando vigorosamente, e poi pianse ancora tanto, e tanto, e tanto. “Il ragioniere ci darà notizie di Boby, non ti preoccupare, e se vuoi ogni tanto lo andremo a trovare: ma non subito, se no lui pensa che lo vogliamo riprendere”. Suo padre non riuscì a consolarla.

Dopo qualche giorno, la bambina cominciò a chiedere, ma il padre le diceva di pazientare, che dovevano lasciarlo tranquillo, che il ragioniere sarebbe venuto per l’affitto e allora avrebbero saputo.

La bambina aspettò con ansia  e quando vide il ragioniere, senza nemmeno salutarlo, gli chiese, di un fiato: “Come sta Boby?”.

Il ragioniere era un veneto dai grandi occhi azzurri e la voce gentile: le accarezzò la testa; poi guardò suo padre; poi guardò di nuovo lei; poi di nuovo suo padre. “Bene, credo: non sono riuscito a parlare col signore che lo tiene”. La bambina uscì dal salotto, contrariata: non si sarebbe mai aspettata che il ragioniere non mantenesse una promessa, per giunta così solenne come quella di darle notizie del suo cane. Prese una bambola e andò in cameretta: ma aveva orecchie giovani, che captarono distintamente quello che gli adulti si stavano dicendo a mezza voce, convinti che lei non sentisse.

Boby era morto. Dopo che il padre lo aveva lasciato aveva subito dato segno di volerlo seguire, tanto che avevano chiuso il cancello: ma lui ci si metteva dietro e per ben due volte lo avevano bloccato appena in tempo per impedirgli di uscire in strada. Alla fine, lo avevano legato alla catena. Boby aveva ululato per gran parte della notte, ma poi si era calmato. Così, almeno, avevano creduto: si sbagliavano. Al mattino lo avevano trovato morto: di crepacuore, avrebbe sempre pensato lei, anche da adulta. Del resto, a casa loro Boby non aveva mai dato segno di volersene andare, di voler ritornare da dove era venuto, anzi. Forse aveva ragione suo padre, quando aveva detto alla moglie, nell’ennesimo e vano tentativo di impietosirla: “Ma quale scappato! E’ estate: quei cornuti dei suoi padroni lo avranno abbandonato. Non vedi come è dolce e tranquillo? Ti sembra un cane che vuole scappare? C’è gente brutta, che queste cose le fa. Non vedi? Lui è anche vecchio… Se ne sono disfatti, credimi”. E adesso, che aveva trovato una casa e una famiglia che gli piacevano, Boby era stato cacciato di nuovo e non era riuscito a superare questo nuovo dolore.

I bambini capiscono la Morte: alla loro maniera, magari, ma la capiscono; capiscono che è qualcosa di definitivamente privativo e infinitamente doloroso per chi resta.

Ora lei sapeva che Boby era morto e capiva che non lo avrebbe rivisto mai più: mai più.

Allora urlò. Urlò come una pazza contro la madre. “Cattiva! Cattiva! E’ colpa tua! Boby è morto per colpa tua! Sei cattiva! Sei cattiva! Ti odio, ti odio!”: e urlava, e piangeva, e si divincolava dalla madre che cercava di abbracciarla, tirava calci, dava pugni alle sue gambe. Quella donna brutta e cattiva non era più la sua mamma, la più bella e buona mamma del mondo: era la spietata Grimilde, la matrigna di Biancaneve; era la malvagia fata della Bella Addormentata; era la strega di Hansael e Gretel, che mangiava i bambini e i loro sogni.

… Ma la sua era davvero la mamma più bella e buona del mondo, che stava provando un grande dolore, vedendo quello della sua bambina, e un enorme senso di colpa per la fine inattesa e straziante di quella povera creatura a quattro zampe, che aveva voluto allontanare e che per il dispiacere era morta poche ore dopo essere stata di nuovo abbandonata.

La bambina pianse fino a sfinirsi, pianse fino ad avere gli occhi gonfi e cisposi, pianse fino a non riuscire a respirare bene, pianse così tanto che si mise a piangere anche sua madre.

Ci volle un bel po’ perché la situazione tornasse alla normalità, davvero un bel po’: e comunque, Boby lei non l’ha mai dimenticato.

Non ha nessuna sua fotografia, però ne ha trovata una di un cane che gli somiglia un po’.

E pensa sempre a Boby quando sente “Tobia”, una canzone (musica e voce di Zucchero, testo di De Gregori) che racconta, facendone la voce narrante, di un cane che si è smarrito e di quello che lui prova mentre, per tornare a casa, annusa inutilmente “la strada dei perduti odori”.

Giancarla Paladini

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