QUANDO E’ DOLCE, E’ DOLCE (questa è una storia vera).

Quando è dolce, è dolce (e questa è una storia vera, dedicata a chi ha avuto sedici anni… e li ha ancora).

Al tempo del liceo, l’unica giornata nella quale le mie lezioni finivano a mezzogiorno era il sabato ed era in quel giorno che, aspettando con alcuni amici l’autobus che mi avrebbe riportata a casa, consumavo il rito settimanale del “pane vanigliato alla zucca”.

Vicino alla fermata, infatti, c’era una forneria dalla quale usciva un profumo irresistibile: “E’ quello del pan di zucca vanigliato – ci spiegò all’inizio dell’anno una del gruppo – Io lo conosco: è buo-nis-si-mo!”, concluse, facendo ruotare la punta dell’indice sulla guancia per rafforzare il concetto. Quello che però non ci aveva detto era che, assaggiato una volta, il pane vanigliato creava dipendenza; aggiungete che a sedici anni ero decisamente famelica (una, per intenderci, che quando in pizzeria il cameriere le serviva l’irrinunciabile calzone farcito già ordinava il secondo, e quando arrivava – potete giurarci – il primo era tranquillamente bell’è che finito) e quindi…

Insomma, quel sabato assaggiammo per la prima volta il pan di zucca vanigliato e, regolarmente, dopo non potemmo più farne a meno. Ogni settimana, a turno, compravamo quella meraviglia: era un pan brioche grosso quanto una zucca, con la crosta croccante che si sfogliava come quella della biova mantovana e la mollica gialla- gialla, profumata e sofficissima; da buoni fratelli ce lo dividevamo in parti uguali, che spazzolavamo a tempo di record.

A sedici anni, si sa, siamo tutti famelici…

Con sole duecentocinquanta lire (cifra piccola anche per quei lontani anni ’70 e dunque perfettamente accessibile pure per quattro ragazzini squattrinati come noi) ci potevamo permettere una vera delizia, che nel mio cuore (e nel mio stomaco) si contendeva il primato del “dolce preferito” con un altro molto più sontuoso, fiore all’occhiello di una piccola e preziosa pasticceria vicina al liceo: il kranz, il mitico, come io lo chiamavo. Purtroppo, a differenza del pan di zucca, il kranz costava caro: centocinquanta lire al pezzo. Non si trattava di una enormità ma, fatti due conti con le monete che avevo in tasca, molte volte dovevo decidere se sottomettermi allo spirito resistendo alla tentazione e risparmiare per un disco, uno spartito, un libro, il regalo per l’amica che compiva gli anni, il biglietto del cinema, o cedere alla carne, abbandonandomi sciaguratamente al vizio e comprando, appunto, il mitico. Per correttezza, va spiegato ai non esperti che il prezzo era alto ma adeguato, perché il kranz è un dolce tutt’altro che semplice e per realizzarlo servono materie prime di alto livello, abilità e tempo: è una “farfalla” di pasta sfoglia intrecciata con pasta brioche arricchita da uvetta aromatizzata all’arancia e liquore, splendidamente lucidata da uovo e panna e infine spolverizzata con un po’ di zucchero e qualche pennellata di glassa leggerissima.

Bene: certamente avrete la salivazione aumentata già solo leggendo gli ingredienti e così non farete fatica a capire il dilemma nel quale quotidianamente mi dibattevo. Se, infatti, passavo davanti al pane vanigliato solo al sabato, e dunque i danni erano contenibili, mi ritrovavo davanti alla pasticceria tutti gli altri giorni, per di più alle tredici, quando la fame era devastante… Qualche volta, esasperata, pensavo che non a caso il bravissimo e mefistofelico pasticciere sfornasse i kranz proprio mentre gli studenti affamati sciamavano per andare a pranzo: solo così si spiegava il profumo irresistibile che dal piccolissimo locale si sprigionava – sempre e soprattutto – a quell’ora di fame infame. Ero una ragazzina con molti difetti, ma non ero una sventata: così, risparmiando sui risparmi senza rinunciare a musica, libri e cinema, ogni tanto mi concedevo quella delizia, che la commessa appoggiava con solennità su di un elegante tovagliolino di carta dopo averla estratta, con uguale solennità, dall’espositore riscaldato, che ne garantiva la giusta temperatura (un buon kranz dà il meglio di sé appena tiepido).

Lo ammetto: il momento nel quale affondavo i denti nella sua pasta profumata e fragrante era uno dei migliori della giornata. In fondo, mi è sempre bastato poco per essere felice.

Giorni fa, quasi per caso, sono passata davanti alla pasticceria dei kranz: la sede non è più quella dei vecchi tempi ma, del resto, nemmeno io lo sono. A questo punto, però, devo precisare che anche se spesso parlo dei miei ricordi non soffro di nostalgia: ai miei sedici anni, poi, non tornerei proprio per nulla. E’ stata un’età difficile, in cui l’adolescenza di una ragazzina con la testa piena di riccioli neri e di idee, sogni e progetti, era compressa in situazioni complicate ben più grandi di lei: anni preziosi, certo, ma faticosissimi e quindi grazie ma no, abbiamo già dato. Però la tenerezza, quella sì, ogni tanto mi prende e così, trovandomi a passare davanti alla pasticceria dei mitici, mi sono ricordata della antica liceale che sono stata.

Per dirla tutta, l’ho proprio incontrata, quella liceale: stava lì, sotto gli alti portici, la vecchia sacca di tela verde militare a tracolla sulla spalla sinistra (… “Cambia spalla ogni tanto, sennò diventi storta!”…) e sotto al braccio destro il pesantissimo vocabolario di greco dalla copertina blu; come ogni giorno dal lunedì al venerdì, con i soliti amici aspettava la corriera per tornare a casa. Ci siamo guardate, meravigliate entrambe di quell’incontro sorprendente, e allora, istintivamente, l’ho invitata a mangiarsi un kranz insieme a me.

Ci siamo sedute, lei mi parlava: era un fiume di parole in cui tutto era bellissimo o pessimo, parole che tutto dicevano e tutto tacevano, perché se sei giovane hai pudore dei sentimenti e, semmai, urli di rabbia e di entusiasmo e dici della gioia, ma taci la tristezza; magari prendi un bel respiro, fai il menefreghista, fischietti una canzone e guardi oltre chi ti sta davanti, ma certe parole no, le tieni dentro, sono roba tua, solo tua.

L’ho osservata attentamente, quella ragazzina, e l’ho ascoltata senza interrompere mentre mi diceva dell’ultimo disco del cantante preferito, del professore che l’aveva delusa, del suo amore per il mare e di come avrebbe voluto fosse il suo futuro, che raccontava come il risultato di un progetto studiato e sudato: “maremoto”, la chiamava con affetto una zia, a sottolineare tutta quella vitalità, tutta quella energia.

Avrei voluto dirle di non avere paura, che anche se nella vita le cose poi sarebbero state diverse lei ce l’avrebbe fatta comunque, che nuove gioie la aspettavano e … ma ho taciuto… Non c’era motivo di sciupare l’attimo: in fin dei conti, eravamo lì entrambe solo per il nostro mitico.

Il passato, si sa, è passato e quel giorno il kranz, purtroppo …“passato” a sua volta, nulla aveva a che vedere col mitico: servito sbrigativamente su di un piattino anonimo, era solo una specie di triste panino dolce con qualche acino di uvetta; niente pasta sfoglia, niente superficie lucida e golosa, niente profumo di arancia; pure brutto a vedersi, con quella sua forma di siluro bioccoloso, e per di più asciutto, spugnoso e freddo. Insomma, quel triste bioccolo era lontano anni luce dal sontuoso dolce che ricordavo. L’istinto sarebbe stato quello di lasciarlo lì, a onta del fedifrago pasticciere che spacciava per Sua Maestà Il Kranz tristi panini all’uvetta, ma ho guardato la ragazzina: lei, il triste panino dolce se l’era spazzolato tutto, perché a sedici anni, si sa, si è famelici. “Non è buono – ho detto – anzi, non è nemmeno un kranz: ma che, ci prendono per fessi?”; e lei, con aria definitiva: “Vero: qua non ci torniamo più!”(ma intanto faceva sparire anche le ultime briciole dal piattino).

Era tardi e ho dovuto lasciarla andare, guardandola allontanarsi. Lei, con il suo solito passo svelto, è tornata sotto gli alti portici ad aspettare la corriera con gli amici: è sparita con loro dietro una colonna, la vecchia sacca di tela verde militare a tracolla sulla spalla sinistra e, sotto al braccio destro, il pesantissimo vocabolario di greco dalla copertina blu. “Cambia spalla ogni tanto, sennò diventi storta!” ho pensato, e poi: “La prossima settimana ci facciamo un bel pan di zucca vanigliato!”.

Ma già sapevo che, pure incurante del galateo e degli sguardi della gente, non avrei potuto sbocconcellare per strada quella bontà, perché la forneria di un tempo non c’è più, sostituita da un altro esercizio che non diffonde nessun profumo celestiale: freddo allo stomaco, al pensiero.

Allora ho fatto un bel respiro, ho finto indifferenza e, scossa la testa non più riccia e non più nera, mi sono messa a tracolla sulla spalla sinistra la mia bella borsetta verde e poi, fischiettando una vecchia canzone, ho ripreso la mia strada, guardando oltre chi mi stava davanti.

“Il passato – mi sono detta – è passato… però quando è dolce è dolce: questo, poi, addirittura profuma di vaniglia e arancia”.

Per me, è già più che abbastanza.

Giancarla Paladini

Canzone consigliata: “Swatch”, Stadio (Musica: Gaetano Curreri. Parole: Francesco Guccini)

(immagine: Giancarla Paladini- archivio personale)

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