“Ospite indesiderato”: chiacchierata con Vittorio Schiraldi

“Ospite indesiderato”, Bookme-De Agostini Ed

2015

pagg 224

€ 14,90 cartaceo

€ 7,99 e-Book

 

Due persone, due provenienze, due storie che sembrerebbero distanti anni luce e invece sono accomunate da uno stesso stato: la “non” appartenenza.

Ma se per uno dei due, il senegalese Mamadou, immigrato clandestino evaso quasi per caso da una carcerazione che non crede di meritare, la sua esclusione da certa società può apparire fin troppo ovvia, nel caso di Luca, architetto romano dalle buone frequentazioni, ci si potrebbe meravigliare, e molto.

Da che cosa, o da chi, Luca è escluso e in che cosa consista la similitudine fra lui e Mamadou si scopre leggendo “Ospite indesiderato”, di Vittorio Schiraldi (Bookme-De Agostini Ed).

L’Autore racconta in questo nuovo romanzo (il suo quindicesimo) una storia estrapolata senza abbellimenti dalla cronaca dei nostri giorni. “Chi non piace, chi è diverso, chi la pensa in altro modo, va escluso!”, sembra essere il diktat:  si considerano legittimi solo i propri desideri, mentre i bisogni dell’altro, materiali o spirituali, infastidiscono o sono ignorati; l’altro, il diverso, il bisognoso, viene rifiutato e, per di più, se ne calpesta impunemente la dignità.

E’ quello che succede a Luca e Mamadou.

Luca soffre, perché il suo matrimonio è in crisi e soprattutto pensa che la moglie voglia escluderlo persino dalla paternità, che è la gioia – unica, forte e vera – della sua vita.

Mamadou soffre, perché capisce che il suo sogno di una vita migliore è quasi sicuramente compromesso e si sente escluso sia da ciò che ha deciso di lasciare, sia dal domani che, onestamente, avrebbe voluto vivere.

Intorno ai protagonisti viene rappresentata un’umanità che nella maggior parte dei casi è dominata da indifferenza, egoismo, cinismo: quell’umanità siamo noi.

E’ ovviamente un romanzo, questo di Schiraldi, è una fiction, ma la realtà, lo sappiamo molto bene, spesso supera la fantasia. Purtroppo.

Vittorio Schiraldi è tornato in libreria con un’altra delle sue storie forti: già alla fine degli anni ’70, irresistibilmente attratto dalla scrittura, per raccontarle aveva abbandonato un promettente futuro nel giornalismo. Il suo primo romanzo, “Baciamo le mani” (Mondadori) uscì nel 1972 e fu un vero successo: da allora, Schiraldi (che si è dedicato anche al cinema, al teatro, alla radio e persino alla pubblicità, sempre ai livelli più alti) ha proseguito il suo cammino, per descrivere con la penna dello scrittore la realtà che il giornalista osserva. Vuole farci pensare, Schiraldi, e ci riesce.

Ecco l’intervista a Vittorio Schiraldi, il cui sonoro integrale trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.

Canzone consigliata:  “Sono innocente”, Vasco Rossi

 

 

Giancarla: Come d’abitudine, chiedo di raccontare in breve la trama del suo romanzo

Vittorio Schiraldi: Questo nuovo romanzo (è il mio quindicesimo) ruota attorno a due vicende che corrono in parallelo: quella di Luca, un giovane architetto che vive una crisi coniugale che non riesce a far trasparire, e quella di Mamadou, un immigrato senegalese senza permesso di soggiorno che finisce quasi per caso nelle mani della giustizia durante la sua breve permanenza in Italia. Sono due storie in apparenza molto diverse, ma che hanno in comune il senso di straniamento dei due protagonisti, ognuno dei quali si sente, a modo proprio, un “ospite indesiderato”; storie che finiranno per incrociarsi in un finale drammatico, che non mi pare il caso di rivelare.

G.: …Sì, questo è uno di quei finali che “strangolano” il lettore, perché il libro ha un ritmo molto serrato pur raccontando azioni “lente”: e questa è una cosa che mi ha particolarmente colpito. Però le farei un’altra domanda: come si dice in gergo, lei “nasce giornalista” e, in effetti, anche le sue opere precedenti, pur essendo di narrativa, sono saldamente collegate alla realtà dei nostri tempi.

V.S.: Eh, sì.

G.: Perché ha deciso, in passato e continua a farlo, di raccontare il nostro presente non attraverso la forma del saggio o, appunto, dell’opera giornalistica, ma attraverso la letteratura?

V.S.: Perché io “nasco” soprattutto narratore: sono un narratore che si è dato al giornalismo, poi ha recuperato se stesso ed è tornato a scrivere, che era esattamente quello che ho sempre desiderato fare. Ho scritto il primo romanzo quando avevo diciotto anni: credevo di avere scritto una specie di “Divina Commedia” e lo mandai alla Feltrinelli. Il lettore della Feltrinelli a quei tempi era – pensi un po’! -Giorgio Bassani (oggi magari troviamo ragazzi che hanno fatto un corso di scrittura creativa e fanno gli editors: a quell’epoca c’erano personaggi come Bassani…); Bassani mi scrisse dicendo che avrei dovuto modificare alcune cose, ma io, che credevo di avere scritto chissà che cosa, quasi mi risentii e buttai il libro da una parte. Così mi dimenticai delle mie aspirazioni e mi misi a fare il giornalista, cercando di farlo al meglio. Poi, un bel giorno, per motivi che è inutile raccontare in questa circostanza, mi sono ricordato delle mie aspirazioni: ho lasciato perdere il giornalismo, che ho recuperato in altri momenti, quando mi sono state offerte altre opzioni, e invece ho cominciato a scrivere un romanzo. Questo succedeva tanti anni fa: ho scritto il mio primo romanzo, “Baciamo le mani”, per Mondadori. Il libro ebbe un grande successo, uscì contemporaneamente a “Il Padrino”, fece nove edizioni, vendette oltre centomila copie: poi la Mondadori avrebbe voluto farmi scrivere qualcosa come … “Continuavano a baciargli le mani”, ma io mi rifiutavo di diventare uno scrittore typed, tipizzato, e scrissi un libro completamente differente, una storia d’amore che potrebbe essere il (mio) primo romanzo che racconta una crisi fra uomo e donna. “Sii bella, sii triste” (il titolo del romanzo. Mondadori ed: n.d.r.) sono i primi versi di una poesia di Baudelaire:

Che mi importa che tu sia onesta? Sii bella! Sii triste, che le lacrime aggiungono al tuo volto ancora un fascino come il fiume al paesaggio; spesso ai fiori gli dà vita e splendore l’uragano.

Raccontava la storia di una donna mezza angelo e mezza demone, mezza angelo e mezza puttana, come sono molte donne, che si innamora di un uomo che ha deciso di rompere col mondo e si è ritirato a vivere da qualche parte, in campagna. Lei lo va a trovare, si innamora di lui (e viceversa), ma lui capisce che lei vorrebbe perdere la propria identità, vorrebbe cancellare quel cinquanta per cento che non le sta bene, per corrispondere a quelle che ritiene siano le aspettative di lui. Lei gli dice: “Io non so perchè tu ti stia isolando, non hai contatti col mondo, ma ricordo che mio padre, quando ero ragazzina, se ne andava in terrazza a guardare il cielo: non so che cosa cercasse, ma era bello stare accanto a lui. E così è bello stare accanto a te.” Lui capisce che questa donna si modificherà e non vuole che accada, perché le storie d’amore finiscono perché ci si evolve, nel tempo, non si cambia tutti allo stesso modo: c’è chi si evolve e chi no, c’è chi cambia in una direzione e chi in un’altra, e, in ogni caso, si finisce per diventare personaggi diversi. Ecco che un giorno uno dice all’altro “Non ti riconosco più” e le storie d’amore finiscono (o, almeno, questa è la mia tesi), se non si trasformano in qualcosa di diverso. Questa donna cerca di modificarsi, lui la tormenta per indurla a recuperare il proprio orgoglio, ma è lei che non riesce più ad accettarsi: e c’è un finale tragico. Qualche anno fa ho scritto un secondo romanzo che raccontava, invece, la crisi di una donna che scopre di essere diventata invisibile agli occhi del marito: si chiamava “Guardami!” e l’ho messo su internet, perché lo leggessero tutti. Questo libro (“Ospite indesiderato”: n.d.r.) chiude il ciclo perché racconta di un uomo che non riesce a rassegnarsi alla separazione, non riesce ad “andare fuori di casa”, ma soprattutto non sa rassegnarsi all’idea del distacco dal figlio, perché teme che quel bambino potrà essere usato come una sorta di ostaggio contro di lui da parte della madre, che magari cerca una sua personale rivincita. Ci siamo allontanati dalla sua domanda iniziale, ma volevo semplicemente farle notare che il giornalismo è stata una sorta non dico di parentesi, ma qualcosa di simile, nella mia vita: era un modo per fare qualcosa in alternativa, ma la red line della mia vita è sempre stata scrivere, che mi piace non in termini di “saggio”; mi piace raccontare in termini di fiction. Ho scoperto il piacere di narrare quando ho cominciato a scrivere i primi libri. Vede, un giorno ho conosciuto un personaggio molto importante: si chiamava Niccolò Gallo ed era il consulente “principe” della Mondadori. Diventammo amici e mi disse: “Caro Schiraldi, ci sono quelli che “fanno” gli scrittori e quelli che “sono” scrittori.” Io gli chiesi: “Secondo lei, chi sono io?” E lui rispose: “Lo capirà da solo” …Perché “essere scrittori” vuol dire vivere in mille mondi paralleli. Quando scrivo un libro mi distacco dalla realtà al punto tale che a volte confondo quello che è reale e quello che non lo è, perché in quel momento seguo i personaggi; qualunque persona che incontro, che avvicino, cerco di vederla in funzione di quello che sto scrivendo, se mi può dare qualcosa, se posso “rubarle” qualcosa (perché, a modo nostro, noi siamo dei ladri: rubiamo emozioni, sensazioni, immagini…). E mi piace vivere in questo mondo parallelo in cui incontri personaggi straordinari, che puoi modificare a tua immagine e somiglianza. Di solito i protagonisti dei miei libri muoiono quasi tutti: quando uno dei miei personaggi muore io sono disperato, perché è come se morisse una parte di me stesso. Essere scrittori vuol dire, secondo me, vivere in questa dimensione, non “scrivere dei libri”.

G.: Ritorniamo ai personaggi di questo libro: facendo, per questioni di tempo, una suddivisione abbastanza grossolana fra quelli maschili e quelli femminili, non c’è dubbio che quello di Mamadou sia un personaggio di grande poesia, pur nella sua veridicità. Invece Luca, gli amici di Luca e il suocero vivono in una sorta di indeterminatezza di se stessi, come se fossero fragili: è così che lei li ha pensati, o questa è una mia interpretazione?

V.S.: No, no, non è una sua interpretazione: è il suo modo (corretto, a mio modo di vedere) di osservare le cose. La maggior parte degli uomini ha perso il proprio ruolo come marito, come compagno, spesso come padre, perché si arriva alla maternità e alla paternità senza essere preparati, e questo li ha…estraniati, … li ha resi fragili: sono loro la parte debole. Quest’uomo, è lui che non sa gestire la fine di un rapporto. Quello che è molto importante è il clima nel quale nasce questo romanzo: è un clima disperato, nel quale ci si divide, si innalzano muri non solo fra città e città, ma all’interno delle città; la gente si rinchiude all’interno del proprio perimetro fatto di egoismo, di ottuso egoismo, per cui la gente si divide fra chi ha qualcosa da perdere e chi non ha niente, come il povero Mamadou. Ci si guarda dagli altri, da quelli che sono “diversi” o appaiono “diversi”, come se si temesse un contagio: tutto questo avviene mentre c’è una crisi economica, per cui chi perde il lavoro, chi riesce a trovarlo con difficoltà, si attacca alla famiglia come all’unico bene prezioso, e nel momento in cui la perde crede di non avere più nulla, è disperato. Negli ultimi tempi c’è stata una recrudescenza, un moltiplicarsi di fatti di sangue: uomini che uccidono i figli, la madre, la moglie, distruggono una intera famiglia: ho cercato di chiedermi perché succede. Allora ho provato ad andare a ritroso, partendo da un finale, quello che ci offre la cronaca ogni giorno, per individuare un personaggio, apparentemente normale, e vedere come si evolve in lui questa follia, che viene continuamente mascherata, per cui, quando esplode in termini definitivi, ecco che il solito vicino di casa, raccontando dell’assassino, dice “Sembrava una persona del tutto normale”.

G.: Secondo lei, il problema dell’accettare l’altro, la “diversità”, sta nel fatto che qualcuno, appunto, venga visto come diverso, oppure è perché questa “diversità” ci impegna, o ci impegnerebbe, a fare qualcosa e noi non lo vogliamo?

V.S.: Noi rifuggiamo da una sorta di impegno che potrebbe coinvolgerci direttamente: oggi, secondo me, cerchiamo di non farci coinvolgere in nulla, siamo abituati ad accettare o accontentare di una “verità” che è esterna a noi; noi la accettiamo aprioristicamente o la respingiamo senza frugare in essa per vedere se corrisponda realmente alla “verità” che saremmo disposti ad accettare. Non vogliamo essere coinvolti e quindi non vogliamo accettare gli altri; non vogliamo nemmeno conoscerli, perché li temiamo, non sappiamo stabilire quali potrebbero essere le nostre reazioni, non vogliamo metterle in campo. Stiamo diventando un po’ infingardi.

G.: “Infingardo”…: che aggettivo perfetto… Lei, lo accennava prima, nella sua vita ha fatto delle scelte professionali coraggiose il cui esito è stato più che positivo, ma non era certo garantito: come giudica la mancanza di volontà di impegnarsi, la mancanza di coraggio? E’ un fatto generazionale oppure dipende da altre ragioni?

V.S.: E’ un po’ anche un fatto generazionale, di cui sono responsabili anche gli uomini della mia generazione. Io mi ricordo che quando ero piccolo correvo sotto le bombe, sentivo il sibilo, che ho ancora nelle orecchie, delle schegge che fioccavano intorno a me, alla mia famiglia mentre correvamo ai ricoveri; la morte era per me un fatto naturale col quale avevo imparato a convivere. Gridavo a mio padre: “Ocò, bum bum!”, per dire “Al ricovero, cadono le bombe!”. Intorno a noi vengono uccise delle persone per atti di terrorismo e improvvisamente vediamo la frenesia, perché usciamo da settant’anni di pace e ci siamo dimenticati che cos’è la guerra; ci siamo dimenticati che si vive costantemente in una realtà a rischio e questa realtà, che non è meno tragica di come quando non ti puoi difendere perché cadono delle bombe in testa, è diventata così traumatizzante che rimaniamo paralizzati. Abbiamo paura di uscire di casa: la gente dice “evito la folla”. Abbiamo paura, siamo pieni di paura: perché noi stessi, noi genitori, abbiamo cercato di proteggere forse un po’ troppo i nostri figli, i nostri nipoti, abbiamo fatto in modo che loro non vedessero quello che noi abbiamo visto o subito. Ricordo che ero bambino, avevo cinque anni, tornavamo dal ricovero e vedevo un palazzo crollato e c’erano le facce calcinate di quelli che erano morti sotto i bombardamenti; ricordo di avere, una volta, calpestato una mano, e sento ancora, se chiudo gli occhi, lo strofinio della suola della mia scarpa contro il dorso di questa mano… Voglio dire… La morte noi non siamo abituati ad accettarla. Io ho scritto un romanzo che amo molto (“Quando i sogni muoiono”, Lampi di Stampa, 2008) che racconta della morte, che descrivo come qualcosa che non è brutta così come viene descritta. La vita è brutta, quando non viene vissuta bene: la morte può essere anche molto bella.

G.: Ci sarebbe ancora da fare un discorso sui personaggi femminili, o sulla gente (che noi oggi chiamiamo “pubblico”, ma potrebbe essere, in questo caso in particolare, il coro della tragedia greca); purtroppo il tempo se ne va, ma io le devo chiedere: “Qual è la “morale” di questa storia?”

V.S.: No, non c’è una “morale”. Io rappresento qualcosa: ognuno prenda dalla realtà che rappresento la parte che pensa lo possa riguardare…Comunque, lei fa domande intelligenti: mi chiami quando vuole, a prescindere dal blog!

G.: Va bene, la ringrazio! E’ stato un grande piacere.

V.S.: Di nulla: grazie a lei!

 

 

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