“Il mio cane del Klondike”: chiacchierata con Romana Petri

con Romana Petri. Nov 2017“Il mio cane del Klondike”, Romana Petri, Neri Pozza Ed., 2017 

Pagg. 208
Euro 16,00

 

 

 

 

 

“Il mio cane del Klondike”

Quando lei lo incontra per strada, lui è morente: è solo un rifiuto, un grumo di vita che si sta spegnendo. Lei, giovane, bellissima, dal cuore generoso, non ci pensa nemmeno un attimo e lo soccorre. Mentre tutti le dicono di lasciar perdere, che lui è un brutto tipo e comunque non ce la farà a salvarsi, lei se lo carica sulle spalle, lo fa medicare e quando quello, con forza ultraterrena, miracolosamente si riprende, sapendo che lui non ha nessuno al mondo che possa assisterlo, segue l’istinto e addirittura se lo porta a casa. La ragazza capirà presto, anzi prestissimo, di essersi imbarcata in una impresa più che ardua: pericolosa. Lui la circonderà di un amore possessivo, slanciandosi contro chiunque pensi si frapponga fra di loro o  ritenga possa farle del male, che sia un vicino di casa, un passante e persino il suo bambino: perché sia pure nella sua bestiale bipolarità, lui, Osac Trofic, cane abbandonato e dannato, selvatico e selvaggio, la ama profondamente e sino alla fine dei suoi giorni la amerà, struggendosi e distruggendosi al solo saperla lontana.

E’ insomma, un libro d’amore,  sia pure sui generisquesto nuovo romanzo di Romana Petri.

“Il mio cane del Klondike” (Neri Pozza Editore) racconta la storia vera di un animale bipolare, estremo, incontenibile e infinitamente innamorato di quella ragazza che, salvandolo in extremis e adottandolo contro il parere di tutti (e forse del suo stesso buon senso), diventa per lui casa, famiglia, protezione. A lei e solo a lei parlerà, con voce persino flautata, in una lingua che capiscono solo loro due; a lei e solo a lei si sottometterà riconoscendola capobranco; per lei e solo per lei rinuncerà alla sua libera e sconsiderata vita brada; senza di lei, per lui sarà solo malinconia e voglia di fuggire dal mondo degli umani, che non gli appartiene e non ama.

“Il mio ultimo ciclone”, lo definisce scherzosamente la scrittrice, rimandando al suo precedente libro, il romanzo di grandissimo successo “Le serenate del Ciclone” (http://wp.me/p6pr8j-im): il “Ciclone” in quel caso era suo padre, Mario Petri, il  famoso baritono basso, noto non solo per la magnifica voce ma anche per l’impetuosità del suo carattere che gli aveva, appunto, meritato l’appellativo di “Ciclone”.

Ma “ciclonico” si rivelerà anche Osac, il cui nome è non solo l’anagramma di quello di un personaggio del romanzo “Di bestia in bestia” di Michele Mari, ma anche di  “caos”, lo stato nel quale piomberà la vita di Romana Petri quando ne farà il suo cane.

La scrittura viva e sapiente dell’Autrice fa sì che il lettore, che ami o meno i cani, entri in questa storia immergendosene poco a poco, anche perchè la Petri si rivolge a lui “guardando in camera”, coinvolgendolo, con lui ridendo, o commuovendosi, preoccupandosi e rivivendo  momento per momento la storia di questo animale, selvaggio come quelli dell’epopea del Klondike di Jack London, ma dall’animo così artistico da guardare ammirato, placidamente accovacciato sulle sue gambe, il pittore David Petri (fratello della scrittrice) mentre dipinge, e così struggente e sensibile da rifiutare ogni cibo in assenza della sua Romana, salvo accettare di mangiare qualcosa se lei, sia pure solo al telefono, glielo chiede come favore personale.

Un libro malinconico? Per nulla: anzi, a questo proposito vi rimando alla lettura delle ultimissime pagine.

Avrete di che divertirvi, ve lo assicuro!

L’Autore

ROMANA PETRI è nata a Roma e vive attualmente tra questa città e Lisbona.

Ha ottenuto numerosi premi come il Premio Mondello, il Rapallo Carige, il Grinzane Cavour e il Bottari Lattes. È stata due volte finalista al Premio Strega.

Traduttrice, editrice e critico letterario collabora con Ttl La Stampa, il Venerdì di Repubblica, Corriere della Sera e Il Messaggero. È tradotta in Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Spagna, Serbia, Olanda, Germania e Portogallo. Tra le sue opere: Ovunque io sia (BEAT 2012), Alle Case venie, I padri degli altri, La donna delle Azzorre, Dagoberto Babilonio, un destino, Esecuzioni, Tutta la vita, Figli dello stesso padre, Giorni di Spasimato amore e il precedente Le serenate del Ciclone (2016).

Ecco l’intervista con Romana Petri, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina. 

Canzone consigliata:  Mario Petri – “Vieni la mia vendetta… Qualunque sia l’evento” (Lucrezia Borgia)

Giancarla: Ti ho detto che questo libro mi ha spiazzato. Per la verità, tutti i libri belli spiazzano, ma in questo caso, dopo il “Ciclone” mi chiedevo: “ Di che parlerà sarà il prossimo romanzo di Romana?” … Perché il “Ciclone” è stato (ed è, visto che anche pochi giorni fa ha meritato un altro premio, il Città di Fabriano 2017) un libro assolutamente straordinario. E quello che arriva dopo, come sarà? E tu te ne esci con la storia di un cane!

Romana Petri: E’ stato per mio padre, che è entrato nei miei romanzi a lungo “clandestinamente”: anche questo cane era già entrato nei miei romanzi, perché era il cane di Alcina in “Tutta la vita” e si chiamava “il Vinciguerra”; era un cane che ha avuto una tale personalità che mi sembrò adatto per quel romanzo, quella situazione, quel personaggio. Poi mi sono chiesta se non fosse giunto anche per lui, come per “il Ciclone” il momento di fare la sua ciclocinata, di essere anche lui l’ultimo cicloncino della mia vita: in questo romanzo non solo lo rendo protagonista, ma lo rendo tale anche con il suo nome e cognome, non con un nome fittizio come Vinciguerra. Così, pur non essendo certamente il cane che ho amato di più – come spiego nell’incipit , perché anche con gli animali esiste “il grande amore irripetibile”-, la sua vita così fuggiasca e tormentata e la sua bipolarità mi hanno profondamente commossa,…“strutta”: la verità è che questo cane mi ha, come si dice in umbro, “arrucinato le budella”, e non poco. Ho cominciato a pensare a questo libro circa dieci anni dalla sua morte (lui è mancato nel 2005) e credo che le ultime quattro pagine spiazzino il lettore ancora di più, perché in quelle pagine faccio raccontare a lui la stessa storia che ho raccontato io, e lo faccio con la sua “lingua”. Anzi: mi sarebbe piaciuto tantissimo scrivere tutto il romanzo così, naturalmente con un testo a fronte, ma mi rendo conto che sotto il profilo editoriale non sarebbe stato un grande successo…! Alla fine, però, il lettore, che oramai conosce la storia, può leggere quelle paginette. Io mi sono divertita moltissimo a creare la sua lingua, che è un miscuglio di umbro, spagnolo, portoghese, molisano, abruzzese e napoletano: ho cercato di fondere queste lingue fra di loro, inventando anche molto, naturalmente.

G.: Come hai detto e spieghi nel libro, questo cane ha un nome e anche un cognome: anzi, è stato quasi più difficile trovargli il cognome, che il nome stesso! Però vale la pena di soffermarsi sulle quattro letterine che compongono il suo nome: OSAC è l’anagramma…

R.P.: … Di “caos”: e mal me ne incolse! L’ho chiamato così perché in quel periodo mi ero da poco fidanzata con lo scrittore Michele Mari: avevo letto il suo libro “Di bestia in bestia”, in cui due gemelli, agli antipodi l’uno dall’altro, si chiamano uno Cosmoc (l’intellettuale, quello elevato, casto e puro) e l’altro Asoc, ed era una “bestia”; e siccome quando l’ho trovato per la strada, malgrado fosse distrutto e disidratato, quel cane era comunque la “bestia”, ho pensato che per lui non ci fosse nome migliore di Osac, il suo anagramma. Dicevo che “mal me ne incolse” perché i nomi, come ben sappiamo, non fanno solamente l’uomo, ma anche il cane: il nome è nato per l’amore verso un personaggio letterario e l’ho trovato bellissimo. Poi gli dovevo cercare un cognome: tutti i miei cani ne hanno avuto uno, purché non fosse il mio, ovviamente. Quindi, per questo cane così abbruttito, capace di boati mostruosi ma anche di sdolcinature e di vocette quasi flautate quando voleva dichiararmi il suo amore, ho pensato che ci volesse un nome davvero adatto. Durante una vacanza disastrosa, con lui, in Bretagna, mi sono accorta che la marca del gelato che stavo mangiando era “ Trofic”: “Osac Trofic” mi è sembrato perfetto.

G.: Osac, però, è anche l’anagramma di “caso” e di “cosa”: tu lo hai trovato che era una “cosa”, lo hai trovato per “caso” e …

R.P.: … E ho trovato il “caos” …

G.: Esattamente! Una successione fantastica! E lui, per un certo periodo, si è comportato con te come una specie di fidanzato geloso, possessivo, ma è stato anche tuo “figlio” prima del tuo vero figlio e forse – permettimi – quasi di più…

R.P.: Quando una fa un figlio ha la consapevolezza e l’aspettativa di diventare madre; se prende un cane, sappiamo che può succedere che sia un surrogato di bambini mai avuti, anche se conosco donne che sono felicissimamente madri e sono al tempo stesso “mamme” dei loro animaletti di casa. Sicuramente un cane così disadattato richiedeva cure speciali, che molto spesso i figli complicati richiedono alle loro madri e quindi sì: lui si sentiva sicuramente più “fidanzato”, io mi sentivo colei che doveva proteggerlo, perché lui avrebbe potuto combinare una follia ogni cinque minuti. Per di più, era un cane dall’impressionante ferocia verso il mondo: il mondo “sano”, “buono”, per lui eravamo solo noi due e basta; se qualcuno mi chiedeva per strada l’orario dovevo trattenerlo, perché lui voleva ucciderlo, se facevo benzina si rompeva le gengive e i denti contro il finestrino per intimorire il benzinaio… Insomma: era impressionante. Il suo era un tipo di amore “dittatoriale”, era un comandante, e io dovevo tenergli testa perché si doveva decidere chi fosse il capobranco. Ha capito che ero io quando fece cadere mio figlio, che era piccolino, e allora divenni una belva: per la prima volta lui si accucciò, con la testa bassa, pensando “Stavolta ce le prendo!”. Naturalmente non ce le ha mai prese in vita sua. E poi ci fu il grande problema quando nacque mio figlio: lui divenne gelosissimo e così abbiamo dovuto separarci… Insomma, è stato complicatissimo. Nei romanzi tante cose si inventano, altrimenti scrivere sarebbe noiosissimo, ma nel libro io scrivo una cosa vera: la sera lo chiamavo al telefono e lui ascoltava, stava al telefono e piangeva. Gli dicevo: “Osacchino, mangia un po’ di pappa, che poi io vengo a trovarti, dai, Osacchio!”. E lui: “Uhuhuh …” E mia madre commentava: “E’ incredibile: questo davvero sta al telefono con te!”. Gli animali sono capaci di cose meravigliose, cose veramente “extra- ordinarie” e tu sai, nel tuo profondo, che non ricambierai mai abbastanza l’amore così devastante e spiazzante che loro invece riescono a provare per te: noi siamo presi dalla vita, da altre cose, e loro, invece, sono presi solo da noi.

G.: Ma Osac è stato più “selvaggio” o più “selvatico”? Me lo chiedevo mentre leggevo il tuo romanzo: “selvatico”, cioè della selva (perché a un certo punto questo diventa), o “selvaggio”, nel senso di riottoso, refrattario ad ogni regola; alla fine ho concluso che forse non era né l’uno, né l’altro, perché, come stai giustamente sottolineando, Osac era un concentrato di amore, sia pure alla sua maniera.

R.P.: Sì, è vero: alla sua maniera. Il suo era un amore possessivo che voglio definire alla portoghese: “devastatore”. Io penso che prendere un animale significhi anche mettersi un pezzetto di natura dentro casa, e questo è bellissimo perché è ciò che manca a noi, che viviamo nelle città: avere con noi un animale domestico, quale che sia, è avere un pezzo di natura. Certo, io a un certo punto mi sono resa conto che mi ero messa in casa mezzo Klondike, i suoi ghiacciai, i fiumi che tracimavano, le primavere in cui tutto si scioglieva, i cieli stellati …: era una cosa sconvolgente! Lui era spiazzante, ingombrante, ma di un fascino straordinario… altrimenti non ci avrei scritto un libro: i libri non si scrivono su quello che abbiamo amato di più (sebbene io lo abbia amato molto), ma sulle cose complicate. Faccio un esempio molto semplice: l’incontro con Osac è stato come quello con un uomo che capisci subito che sarà negativissimo per la tua vita, ma ciò nonostante dici… “Me tocca!”.

G.: Ora ti faccio una domanda, sperando di non essere impertinente: a un certo punto, il “Ciclone” che era uscito dalla porta rientra dalla finestra, perché tu parli con tuo padre, lamenti con lui il fatto che non potrà vedere tuo figlio; sia pure fatte le debite differenze, c’è una corrispondenza fra tuo padre e Osac? … Perché anche con tuo padre la tua vita è stata piena e al tempo stesso impegnativa: forse è stato anche per questo che hai parlato di Osac solo dopo aver parlato del “Ciclone”?

R.P.: Certo, indubbiamente: e io lo definisco “il mio ultimo ciclone” perché questo cane è stato, a suo modo e da cane, il più pazzesco che si potesse immaginare.

G.: E che cosa ti ha insegnato?

R.P.: Osacchino? Osacchino mi ha insegnato il coraggio, la temerarietà. Il suo non avere paura di nulla mi inquietava. Anche il cane che ho avuto prima di lui, un boxer, era molto battagliero, ma mi ricordo quella volta che vide seduto sopra una montagnola un altro cane: il mio era senza guinzaglio e siccome si sentiva bello, giovane, aitante e sfidava tutti i maschi, partì per andare a sfidare l’altro, ma man mano si avvicinava si accorgeva che era un gigantesco San Bernardo e così quando gli è stato vicino ha fatto una curva ed è tornato indietro. E’ stato saggio, calcolatore, filosofo in un certo senso. Osac? Lui partiva contro dieci, era folle: era molto più simile ad Achille che ad Ulisse! Non ragionava e infatti io lo chiamavo “lo sragionato”: era tutto furia, tutto “trippe”, tutto cuore; era pronto ad immolarsi e io sono certa che, come mio padre, perché qualcuno mi toccasse lui doveva essere morto, prima.

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