Lorenzo Amurri 2016

 

 

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Odio i coccodrilli, che siano cinicamente preparati da tempo o che si debbano improvvisare. “Tizio è stato un grande attore/cantante/ scienziato/ politico/ sportivo; ha fatto questo e quello. Era malato da tempo; anzi no, la morte è sopraggiunta all’improvviso; cordoglio unanime”, eccetera, eccetera eccetera. Penso ai colleghi che devono scrivere queste pagine e a loro mando tutta la mia solidarietà, perché si accollano uno dei compiti più spiacevoli del mestiere.

Ma questo che sto per scrivere può sembrare, mi sa tanto e lo temo, un coccodrillo: perché è morto Lorenzo Amurri, e per me la notizia è stata come una schioppettata. E non posso fare finta di nulla.

Con Lorenzo Amurri nel 2013 ho condiviso mezz’ora o poco più di vita: abbiamo parlato di “Apnea”, racconto senza sconti della sua vita dopo il terribile incidente di sci che nel 1997 lo aveva lasciato tetraplegico. A ventisei anni.

Avevo molto fortemente voluto quell’intervista (si dice così?) e ora che, grazie a Francesca Comandini e a Fandango, stavo per registrare, avevo un po’ paura di incontrarlo: che cosa chiedergli che fosse il più possibile rispettoso, intelligente, appropriato?

Ma poi ho pensato che nel suo libro Lorenzo Amurri era lontano da ipocrisie e ancora di più da pietismi e autocommiserazione: anzi, era proprio agli antipodi rispetto a qualsiasi luogo comune sulla disabilità, e mi sono rilassata. Sincero, dalla prima all’ultima parola, lui, lo sarei stata anche io. E così gli ho fatto domande a cuore aperto, senza ipocrisie, pietismi e imbarazzi: Amurri ascoltava e rispondeva, lieve, ironico, cortese, disponibile, paziente. Ovviamente, sincero.

Fuori onda abbiamo chiacchierato di un paio di vecchi libri scritti da  suo padre, che avevo letto anni prima: “Piccolissimo” e “Famiglia a carico”, diari esilaranti di una quotidianità fatta di storie piccolissime fra moglie e quattro figli, il più piccolo dei quali era lui, Lorenzo. E gli ho anche detto che una parola di quel libro è entrata nel mio gergo familiare: la parola è “occofòso” e non vi spiego nulla altro, perché lascio a voi il piacere di scoprirne il significato.

Ne abbiamo sorriso. Ci siamo salutati. Lorenzo Amurri è andato verso altre interviste, altri colleghi, altri incontri.

Ha scritto un secondo libro, “Perché non lo portate a Lourdes?”, sempre per Fandango: un’altra tappa della sua crescita umana.

Sulla sua pagina facebook campeggia la foto “Divieto di malinconia” e infatti ha lasciato detto: “Non voglio funerali. Semmai una festa”. Perché? Perché si riteneva fortunato. “L’incidente mi ha cambiato, mi ha cambiato tanto: in positivo, credo”, sono state le parole più incredibili che mi ha detto.

Ho voluto  ricordarlo non perché sia morto, né perché fosse un disabile e forse nemmeno perché era un artista e uno scrittore di valore: ho voluto dire di lui perché mi ha colpito profondamente e per nessuna delle motivazioni di cui sopra.

Credo di essermi spiegata.

E spero davvero che questo non sia né sembri un coccodrillo: se non fosse così, chiedo scusa tutti.

A Lorenzo Amurri, soprattutto.

G.P.

 

 

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