“La vita felice”: chiacchierata con Elena Varvello

elena-varvello-immaginen“La vita felice”, Elena Varvello

Einaudi 2016

pp. 200

€ 18,50

 

 

 

Elia è un adolescente, solitario e pieno dei problemi che l’età gli impone. La sua è una famiglia felice, almeno fino a quando il padre non perde il lavoro e finisce in una spirale dolorosa, che porta la sua mente a vagare dietro immaginari nemici e fantasmi inquietanti. Tutti si accorgono del cambiamento, anche Elia: tutti tranne la moglie, che continua ad amare sommessamente quel marito così strano, ignorando (o fingendo di ignorare?) che qualcosa nella loro “vita felice” si è spezzata definitivamente.

Intanto, la comunità viene sconvolta dalla sparizione di un bambino del paese, poi trovato ucciso: chi può essere stato, ci si chiede? Quale mostro ha commesso un crimine così terribile?

Anche Elia se lo domanda, e si domanda pure dove vada suo padre quando sparisce per ore sul suo furgone mal messo, che sembra essere diventato per lui una specie di tana; e, con sottile angoscia, si domanda anche se il mostro non sia davvero uno di quelle parti quando, in un agosto che per lui diventerà indimenticabile, sparisce anche una ragazza, sua conoscente.

Elia, nell’estate dei suoi sedici anni, si trova a vivere un passaggio nodale della sua esistenza, quella presente e quella futura: arriva inatteso un amico difficile, arriva la madre di lui e con lei arrivano nuove, sconvolgenti, consapevolezze.

In quell’estate cruciale Elia osserverà il mondo, i sentimenti, le passioni; le sperimenterà; amerà e odierà la gente, sua madre, suo padre e niente, poi, sarà più come prima: forse – e soprattutto- essere felici.

Ne “La vita felice” (Einaudi, 2016) Elena Varvello torna alla forma del romanzo, già felicemente sperimentata nel suo precedente “La luce perfetta del giorno” (Fandango, 2011): lo fa con una storia scabra, asciutta, tagliente, che parla di famiglie imperfette, di amicizie interrotte, di necessità di sopravvivere anche ai dolori più grandi.

La vita felice” racconta un percorso interiore che, l’Autrice sembra suggerirlo convintamente, attraverso la pietà deve necessariamente portare al perdono.

L’Autore:

Elena Varvello è nata a Torino.

Ha pubblicato le raccolte di poesie Perseveranza è salutare (Portofranco, 2002) e Atlanti (Canopo, 2004). Con i racconti L’economia delle cose (Fandango, 2007) ha vinto il Premio Settembrini, è stata selezionata dal Premio Strega e nel 2008 ha vinto il Premio Bagutta Opera prima. Nel 2011 ha pubblicato il suo primo romanzo, La luce perfetta del giorno (Fandango). Per Einaudi ha pubblicato La vita felice (2016). È docente presso la Scuola Holden di Torino.

Ecco di seguito l’intervista a Elena Varvello, il cui audio trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.

Canzone consigliata: “PadreMadre”, Cesare Cremonini

 

Giancarla: Chi mi segue sa che in questo mio piccolo, e spero poco cincischioso, salotto invito solo chi mi piace: Elena Varvello mi piace tantissimo. Grazie per essere qui con noi.

Elena Varvello: Grazie, è un piacere per me.

G.: Come vuole la consuetudine, ti chiedo, se ti va, di raccontarci qualcosa della trama del romanzo.

E.V.: Molto volentieri. “La vita felice” è, credo, due cose insieme: da un lato il racconto dell’estate del 1978 in cui il sedicenne Elia conosce Stefano, che ha sedici anni come lui, e la madre di Stefano, Anna; ma “La vita felice” è nello stesso tempo il racconto di una notte particolare, sulla fine di quell’estate, durante la quale il padre di Elia, Ettore Furenti, che è stato licenziato da poco e sta vivendo un momento fra i più difficili della sua vita, dà un passaggio ad una ragazza, ma invece di riportarla a casa la porta nei boschi e la tiene con sé per tutta la notte. Ovviamente non posso dire che cosa succederà, ma “La vita felice” è il racconto di questi due momenti: uno è molto lungo, l’altro dura una manciata di ore.

G.: Questo romanzo è stato definito, contemporaneamente, un noir e romanzo di formazione: sei d’accordo?

E.V.: In linea generale – cioè per quanto riguarda tutti i romanzi, non il mio in particolare – non ricorro a classificazioni, nemmeno come lettrice: probabilmente è un romanzo di formazione, che però ha una zona molto scura e pericolosa, appunto il racconto della notte di Ettore Furenti; forse, nella percezione di alcuni, questa notte che si dilata tanto e della quale non si conosce l’esito ha assunto una tinta da noir. Per quanto mi riguarda non l’ho concepito come un noir: se lo è, non è di sicuro intenzionale.

G.: Mi fa molto piacere quello che hai appena detto: anche se adesso può sembrare compiacenza da parte mia, devo dire che anche io, leggendo queste definizioni, sono rimasta un po’ spiazzata, perché la mia percezione era di tutt’altro genere. Ti dico la verità: sono andata con la mente ad un romanzo che campeggia nella mia libreria e che amo molto (anzi: in questa occasione vorrei tornare ad invitare i nostri amici a leggerlo). Il romanzo si intitola “La luce perfetta del giorno” ed è stato scritto da una certa signora che in questo momento è al telefono con noi (Elena Varvello: n.d.r.).

E.V.: Tu pensi che ci siano dei rapporti fra i miei due romanzi?

G.: Sì: anzi,  pur essendo molto diverse le situazioni, la trama, i personaggi e l’impostazione, ho trovato fra loro una sorta di continuità, delle linee guida: le famiglie imperfette, l’ essere fuori luogo di qualcuno dei personaggi, la presenza di momenti oscuri, di bui dell’anima ma anche del mondo esterno, il dipanarsi del tempo… E anche i titoli, che vanno a passeggio fra loro: “La luce perfetta del giorno”, qualche anno fa, ed ora “La vita felice”. Almeno, queste sono le mie impressioni…

E.V.: … Sì, sono giuste, nel senso che se penso ai due romanzi li accosto anche se sono molto lontani, perché fra di loro sono passati sei anni: in effetti qualcosa che li accomuna c’è, hai ragione… Certamente la mia riflessione sulla famiglia, sulle “zone di oscurità” e sul trascorrere del tempo. Probabilmente c’è anche un’altra questione che li accomuna ed è forse quella che mi preme di più, specie ne “La vita felice”: la riflessione su ciò che nella vita conta davvero, sul che cosa significhi essere felici e, soprattutto, sul perdono e sulla compassione. In fondo, anche il finale de “La luce perfetta del giorno” contiene il ragionamento su quale sia il significato vero di una vita perché la si possa definire “buona” o “felice”: in questo romanzo c’entrano di sicuro compassione, empatia e perdono, che poi sono le tre grandi questioni su cui continuo a riflettere… Per cui sì, i due romanzi, da questo punto di vista, sono apparentati.

G.: Sono queste le tematiche che ti stanno a cuore: ad esempio il perdono – qui nei confronti di un padre che definire “imperfetto” è riduttivo-  verso chi ci è vicino affettivamente eppure ci fa soffrire permette anche di confrontarsi con la propria e vera anima, anzi con il proprio e vero animo. Forse è per questo che qualcuno ha definito “La vita felice” un romanzo di formazione: le tematiche che proponi (compassione e perdono) non solo sono importanti ma, proiettate nel sociale, sono anche attualissime. Non si può essere in pace se non si è data la pace, no?

E.V.: Sì, certo. Il padre di Elia non è un mostro, ma è una di quelle persone che, soprattutto dal punto di vista mediatico, vengono mostrificate; è una persona molto malata che però, nonostante la malattia e le proprie ombre, sul finire della loro vita in comune, dice al figlio una frase cruciale, non tanto per Elia quanto per me: “Sei andato a dare un’occhiata laggiù ”. Quel laggiù per me è importante perché è un luogo fisico nel romanzo, ma è soprattutto, come dicevi tu, un laggiù dell’anima: è come dire che si deve davvero guardare in fondo. Il padre di Elia lo dice riferendosi a se stesso, ma è quello che forse anche noi dovremmo imparare a fare, con noi stessi e con gli altri: dovremmo imparare a guardare laggiù e, una volta che lo si è fatto, la colpa, la condanna, il giudizio forse si modificano, forse si cancellano, forse sono possibili la compassione e il perdono. Ma prima bisogna davvero “guardare laggiù” e questo richiede un enorme coraggio, perché è molto difficile.

G.: Eh sì, perché poi non si torna più indietro…

E.V.: Certo.

G.: I nomi dei personaggi … “c’entrano”?

E.V.: Sì, certo, i nomi “c’entrano” sempre. Il cognome dei protagonisti è Furenti e c’è una sorta di “furia” che li accomuna e che è, probabilmente, la “furia” della malattia per Ettore e la “furia” dell’adolescenza per Elia…. Però… Sai che nessuno mi ha mai chiesto questa “cosa” dei nomi? Ti ringrazio non so quanto e non so come per averlo fatto! E’ vero: c’è la “furia” dell’adolescenza, che è anche una furia emotiva nei momenti in cui (come tutti abbiamo fatto a quell’età in cui si esprimono giudizi implacabili) Elia dice di suo padre: “Lo odio e lo odierò per sempre”. In realtà l’odio di Elia, nel corso dei trent’anni successivi (perché la storia, nel romanzo, è raccontata da Elia trent’anni dopo i fatti), passa e si spegne nel perdono e nella compassione. Il suo amico Stefano e la madre di Stefano, che sono altri due personaggi centrali del romanzo, di cognome fanno Trabuio perché stanno, appunto, fra la luce e il buio, in una  zona di confine, per cui sono luminosi ma anche oscuri, impenetrabili; quindi …sì, i nomi “c’entrano”, “c’entrano” tantissimo!

G.: E a me ha fatto anche un po’ tenerezza pensare che il Furenti padre si chiami Ettore e non Achille…

E.V.: E’ vero; ci sono  dei piccoli segreti – che non sono nemmeno tali – sui quali ho però riflettuto solo qualche tempo fa. Ettore si chiama Ettore e non Achille perché ha un suo destino; Elia si chiama Elia, mentre io mi chiamo Elena, e quindi le lettere del nostro nome coincidono, e di questo mi sono accorta di recente, ma anche in questo caso certamente, data l’origine di questo romanzo, un significato c’è.

G.: …Non è che ti sto facendo domande troppo personali, vero?

E.V.: No, va benissimo!

G.: Sto parlando con un’insegnante di scrittura: come ci si trova essendo, appunto, una persona che insegna questa … cosa (non saprei in che altro modo definire la scrittura: anzi, se mi vorrai aiutare a definirla, te ne sarò grata) e poi si cimenta nella scrittura di libri importanti come questo?

E.V.: …Penso di aver capito poche cose nella mia vita, ma forse una paio sì: intanto, per definire la scrittura provo a tradurre cosa con mestiere, specificando però che “mestiere” non significa una attività che si fa per vivere, ma un’attività artigianale in cui si prendono gli attrezzi e si prova a fare qualcosa; al tempo stesso, e a differenza di altri mestieri, la scrittura, purtroppo e per fortuna, ci vede sempre principianti. Questo è un concetto che per quanto mi riguarda è sempre terribilmente importante, perché ogni storia ha da essere imparata, come ogni volta la scrittura deve essere imparata daccapo. Quando si lavora con ragazzi molto giovani si dovrebbe fare passare questo principio, modificando o magari sgretolando aspettative per cui ci si illude che, imparati un paio di tecniche o di trucchi, questi poi servano per sempre: nella realtà, davvero ogni storia ha da essere imparata, e così il linguaggio, per cui forse si può fare passare questa idea del mestiere. Credo che se si perde la percezione di sé come di qualcuno che è sempre all’inizio forse ci si accomodi in una zona della scrittura vicina all’autocompiacimento e alla tecnica, e questo, di solito, non porta molto lontano: paradossalmente (insegnando scrittura: n.d.r.) non si trasmettono tecniche ma il senso, il significato del proprio mestiere.

G.: Mi sembra chiarissimo, anche perché la scrittura è una forma sublime di arte e forse per avvicinarla ci vorrebbe anche quella cosa chiamata “talento”, con la quale non è però sempre facile e automatico confrontarsi: ecco perché è interessante il tuo lavoro di insegnante.

E.V.: Sul talento si giocano le peggiori ambiguità e i più grandi equivoci, perché il talento è indefinibile: racchiude una serie di caratteristiche che non sono misurabili. Penso che si possano discutere alcune sfumature del talento – che poi non sono affatto solo “sfumature” – ovvero la tenacia, la determinazione, la capacità di resistere alla frustrazione e che fanno parte del talento, per come lo intendo io, che ha una gigantesca parte imponderabile: ma, specie quando si è molto giovani, queste caratteristiche sono piccoli semi che vanno innaffiati, perché la capacità di scrittura si sviluppa nel tempo. E’ un percorso molto lungo, che bisogna imparare a sostenere soprattutto imparando i propri limiti, con i quali ci confrontiamo ogni giorno: questo è un concetto che si può provare a far passare forse più attraverso l’esempio, che salendo in cattedra.

G.: Sono d’accordissimo. Ti ringrazio molto e siccome nella mia testa i tuoi due romanzi sono due episodi di una sorta di trilogia, non so di che tipo ma questa è l’idea che io mi sono fatta, sto già aspettando il prossimo capitolo: … perché nel tuo precedente romanzo hai raccontato una storia straordinaria di grande amicizia, con gli alti e bassi che le grandi amicizia hanno, e anche in questo libro hai raccontato una grande storia, sia pure più aspra, più asciutta, e quindi sono curiosissima di sapere che cosa leggerò di tuo prossimamente. Forse tu ne sai già qualcosa?

E.V.: In questo momento ne so molto poco: ovviamente, ho qualche “sentore”. Però ti dico una cosa che ti darà gioia e ti conforterà: questa idea della trilogia…sai che da un paio di mesi comincia per me ad avere un senso? Quindi è probabile che quello che arriverà, in un modo simbolico forse chiuderà quella che, in effetti, potrebbe essere una trilogia: l’unico problema è che sono lentissima e ci vorranno degli anni… O magari no! Non lo so… Però arriverà: magari prima di quanto io stessa non immagini.

 

 

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