La classe non è acqua: specie in treno.

 

La classe non è acqua: specie in treno.

Questa è una storia vera.

Stamattina avrei dormito ancora: non sono una dormigliona, però svegliarmi prima delle cinque del mattino per essere sul treno un’ora dopo mi pesa parecchio. Ma è per lavoro che devo farlo, cioè per un motivo bello e importante, e quindi basta con le lamentele: siamo in ballo e balliamo. Così mi siedo sul primo posto che trovo libero (e non è impresa da poco, su un treno regionale, trovare un posto che sia libero e pulito) e comincio a guardarmi intorno, giusto per ingannare il tempo, visto che non riesco a dormire seduta e di leggere, a quest’ora, non ho proprio voglia.

Mi accorgo che devo essere finita in mezzo a una convention di scicchettosi perché tutti, uomini e donne, sembrano appena usciti dalle mani di un maggiordomo, tanto sono perfettamente stirati e inamidati. I signori hanno giacca e cravatta, le signore vestono tailleur, e tutti sono griffati: praticamente, sono ripiombata negli anni ’80.

Dopo un attimo mi si siede davanti una tizia biondastra e allampanata, che disperatamente fa cenni ad una amica di sedersi lì, accanto a lei. E’ agitata: “Ma questi qui, non si lavano mai?!” La voce le esce da sotto il fazzoletto che si sta premendo contro il naso, a uso mascherina: anche se non condivido il retropensiero razzista che la generalizzazione sottintende, devo ammettere che, effettivamente, il transito di tre ragazzi di colore ha gravato l’aria di un afrore pesante. La tizia, continuando a lamentarsi a voce alta, con la mano libera toglie dalla borsa – firmata e costosissima – una boccetta di profumo spray. Spruzza istericamente di profumo il fazzoletto, le sue mani e, già che c’è, anche l’aria lì attorno: il giochetto, dato il prezzo del profumo, deve esserle costato una decina di euro. E nemmeno mi ha chiesto, visto che a quel punto sarei stata costretta ad annusare l’odore che aveva scelto lei anche per me, se per caso mi piacesse: “No” sarebbe stata l’ovvia risposta, perché il profumo è di quelli ambrati, caldi e appiccicosi, che io proprio non amo. L’operazione, però, serve a tranquillizzarla: smette di inveire, estrae dalla borsetta un paio di occhiali da sole (sempre della stessa stilista) e, improvvisamente rallentata nei gesti, li indossa, guardando fuori dal finestrino. I suoi movimenti sono impercettibili, ma capisco che si sta assopendo: sembra incredibile, visto che pare non sfiori né con la schiena né con la testa i sedili, che tanto ribrezzo le provocano, eppure… sì, dorme!

Volto la testa verso gli altri viaggiatori: evidentemente il profumo della signora doveva anche contenere del cloroformio, perché stanno dormendo quasi tutti… Ma se siamo partiti da non più di quindici minuti…?!

Per qualche mistero, immuni sembriamo essere solo io e alcuni ragazzi, ipnotizzati – loro – dall’immancabile cellulare: il resto della vettura dorme. Lo dimostrano le espressioni dei visi, con i muscoli facciali così rilassati che i lineamenti paiono allungarsi e le guance sciogliersi fino quasi a farli sembrare, se non fosse per gli occhi chiusi e le mani conserte, repliche viventi dell’ “Urlo” di Munch: … come il biondino sul fondo, che appena si è seduto ha posizionato sotto il gomito la sua ventiquattrore (firmatissima: ma che lo dico a fare?), si è sfilato la giacca, che ha perfettamente disteso sulle gambe, ha appoggiato la testa sul sedile giocandoci un po’, come si farebbe con un guanciale di piume, e ora dorme beatamente.

Anche la signora della fila accanto alla mia, sull’altro lato del corridoio, dorme.

Dicono che la classe sia una dote innata e si riveli anche nei gesti più consueti e istintivi, come mangiare, sbadigliare, dormire. Se è così, non ci sono dubbi: questa è una donna di classe. Non lo dicono solo gli abiti, perfetti per foggia, colore, stile, né il trucco, impeccabile benché fatto prima del sorgere del sole, quando la gente normale a fatica riesce a tenere gli occhi aperti; non lo denunciano nemmeno i suoi accessori, ovviamente firmati ma non chiassosi: no, è la posa che la signora ha assunto lasciandosi scivolare fra le braccia di Morfeo a urlarlo al mondo, che nemmeno Munch avrebbe saputo fare meglio. La testa è mollemente appoggiata sullo schienale, ma solo in un angolino, poco poco; le braccia sono incrociate in perfetto stile Monna Lisa e, anzi, ora che la guardo bene, mi pare che della moglie di Sor Giocondo abbia anche il lievissimo sorriso; le gambe sono intrecciate in modo del tutto simile, e i piedi…

No, un momento: mentre li sto osservando, noto che con un movimento impercettibile la Signora si sta sfilando il mocassino con fibbia per liberarsi della scarpa, come una ineducata e qualunque plebea.

Tu quoque…”

La delusione è troppa, e così distolgo lo sguardo da lei per guardare qualcun altro: ma c’è poco da vedere, perché in realtà tutti i miei compagni di viaggio (che, come mio malgrado in seguito capirò chiaramente dalle loro telefonate, sono manager, avvocati, giornalisti) sono simili; gli unici un po’ diversi sono i più giovani, che però si somigliano fra loro perché tutti sono protesizzati da cuffiette e smartphone.

Mi rendo conto che da un bel po’ in questo vagone/dormitorio non si sente voce umana: tutto il contrario di quello che succederà nel viaggio di ritorno, dove sarò costantemente costretta ad ascoltare conversazioni telefoniche altrui; schivare le briciole dell’affamato/a vicino/a di posto che, avendo evidentemente pasti poco regolari, sta sbafandosi fuori orario una confezione di schifezze in busta (maleodoranti, per giunta: che ne direbbe la maniaca del profumo?); salvaguardare il mio spazio vitale dal tizio che allarga entrambi i suoi gomitoni sui braccioli (ma non esiste una regola, tipo: “solo il bracciolo di destra è quello di competenza”? Certe guerre sono scoppiate per molto meno…). Sorvolo su altre scene viste e subite.

No: qui tutti dormono, tutto è pace, tutto è silenzio.

Ma dopo una ventina di minuti, come reagendo ad un segnale emesso tramite ultrasuoni (che io, di nuovo, non avverto), i miei dormienti compagni di treno si svegliano, l’uno dopo l’altro, in una specie di ola. Nessuno ha russato, fortunatamente, ma qualcuno si stiracchia e abbozza un sorriso bolso al vicino: ci manca solo che faccia schioccare la lingua e si produca in un sonnolento sbadiglio per completare il repertorio del risveglio domestico. Se non che, qui non siamo a casa nostra, siamo su un treno “pubblico”…

“L’Urlo di Munch” si raddrizza sul sedile, aggiusta la cravatta, guarda orologio e telefonino e prende fra le mani la sua valigetta: ha gli occhialini di metallo dorato e devo dire che, sveglio o dormiente, non è che l’estetica migliori. Anche la Profumosa si muove: toglie gli occhiali, che ripone nella borsa per estrarne uno specchietto e un rossetto (non ci crederete, firmato e costosissimo, della stessa griffe della borsa e degli occhiali: sarà una dipendente di quella Casa di Moda, o è una fissata monomarca? A occhio e croce, direi la seconda), si colora le labbra facendo le dovute smorfie del caso, rimette via il tutto e improvvisamente mi guarda, ostile. Si alza di scatto: “… ‘messo”, mi sibila con tutto il disprezzo di chi non si capacita che qualcun altro si stia permettendo di viaggiare sul suo stesso treno; fa un cenno all’amica e se ne va con un anticipo di almeno dieci minuti sull’arrivo in stazione, giusto per essere sicura di scendere per prima. I ragazzi con le cuffiette continuano a indossarle, ma la loro espressione ora è decisamente più lucida. Rumori, saluti, cellulari che, obbedendo a loro volta al segnale di prima, hanno cominciato furiosamente a squillare, colpi di tosse, sonori starnuti e così via: è la solita vita maleducata che ritorna.

Per fortuna c’è lei, la Signorile Signora del sedile sull’altro lato del corridoio: con movimenti aggraziati si passa una mano fra i capelli morbidissimi e lucenti, si guarda attorno con il sorriso di cui sopra e l’espressione di una regina che osserva benevolmente il suo popolo, e si alza. Ha ricalzato la scarpa senza che nessuno si sia accorto di nulla tranne me, che devo essere proprio una carogna, perché noto che, appena sul tallone, si alza una leggerissima smagliatura nelle calze: mi sento in colpa vedendola avanzare lieve e inconsapevole di tanto orrore, penso anche di avvertirla, ma vigliaccamente mi trattengo.

Il giochino di togliere e mettere la scarpa ha fatto danni, ma la colpa non è della Signorile Signora: si sa, il nylon non è roba di classe. Specie su un treno regionale.

Per dire.

GP

 

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