“Chi ha bisogno di te”: chiacchierata con Elisabetta Bucciarelli

bucciarelli“Chi ha bisogno di te”, Elisabetta Bucciarelli

Skirà, 2017

pagg 144

€ 14,00

 

 

 

 

 

Elisabetta Bucciarelli, “ Chi ha bisogno di te”.

Raccontare dell’animo umano e dei traguardi che può raggiungere: potrebbe essere anche questa la vocazione dello Scrittore. A mio parere, è quella di Elisabetta Bucciarelli.

L’Autrice milanese, infatti, percorre da sempre questo cammino, qualunque sia l’ambito in cui abbia portato la sua scrittura: narrativa – anche di genere-, saggistica, teatro, radio, televisione, carta stampata.

Lo fa – si badi bene però – non alla maniera dello psicologo o del filosofo, ma del letterato (e non è distinzione da poco).

Racconta, Elisabetta Bucciarelli, la nostra contemporaneità e – cosa non certo facile – lo fa con lo sguardo carico di umanità e, proprio per questo, libero da pregiudizi.

Racconta, Elisabetta Bucciarelli, di persone che, a volte inconsapevolmente, altre a costo di sacrifici non indifferenti, cercano di superare gli stereotipi, di esprimere se stessi senza tuttavia prevaricare il prossimo: e il sistema più efficace per riuscirci é trovare il giusto modo per comunicare.

In cima a questa strada tutta in salita, l’Amore: “Stimo solo chi ha molto amato”, butta lì l’Autrice prima che le pagine del suo nuovo romanzo inizino a narrare.

Dopo avere raccontato il “maschile” ai nostri giorni (come Autrice ne “La resistenza del maschio”, NN Editore, 2015 e nel 2017 in qualità di curatrice della raccolta di racconti “L’Uomo Nero”, AAVV, Caracò Ed, 2017:http://wp.me/p6pr8j-gs; http://wp.me/p6pr8j-C5), Elisabetta Bucciarelli ora mette in primo piano il “femminile” proponendo la storia di Meri (si scrive proprio così), una diciassettenne che si chiede che cosa sia il Grande Amore di cui tutti raccontano mirabilia e lei non ha mai provato, lo tsunami che  fa perdere la testa, il sonno, l’appetito. “Non sai cosa ti perdi a non aver mai perso la testa”, le sibilano con aria di sufficienza le amiche.

E’ vero: lei non lo sa e ora lo vorrebbe tanto sapere. Le sembra per questo di essere strana, diversa dalle altre, diversa da tutti: dalla sua amica Sara, per esempio, dai compagni di classe, da sua madre; ma Meri, in realtà, diversa lo è davvero. Tanto per cominciare, ha una peculiarità: un grave incidente del passato le ha lasciato una specie di iperacusia selettiva che le consente di sentire i battiti delle ali degli insetti, che lei riesce non solo a localizzare, ma anche a distinguere per specie; figlia di genitori separati, ha una madre a sua volta assai speciale che “ha studiato teatro al Piccolo di Milano e ora scrive drammaturgie” e ha una vera e propria passione per i semi  e per le piante – che interra e divelle a seconda che nella sua vita certe storie e certe persone arrivino o se ne vadano – ed educa la figlia comunicando con lei attraverso le canzoni dei Queen; né il padre, assente e fragile, riesce a infonderle certezze.

A un certo punto, Meri comincia a ricevere bigliettini anonimi, scritti a mano, che riportano spezzoni dei testi di Freddy Mercury. Chi li scrive? Un corteggiatore timido? Uno stalker? Si tratta del Grande Amore che sta arrivando, o di uno scherzo feroce? O di che cosa altro?

Cercando di scoprire l’identità del mittente sconosciuto, Meri imparerà molto su di sé, sulla sua storia, su chi la circonda: e sull’Amore, naturalmente.

L’Autore:

Elisabetta Bucciarelli vive e lavora a Milano. Ha scritto sceneggiature, saggi e romanzi, tra i quali Io ti perdono, premio Fedeli 2010, Ti voglio credere, premio Scerbanenco 2010, Corpi di scarto, L’etica del parcheggio abusivo e il recente La resistenza del maschio. Conduce laboratori di scrittura sensoriale, ama la poesia, suona il pianoforte e studia canto.

Ecco l’intervista a Elisabetta Bucciarelli, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.

Canzone consigliata: “Made in Heaven”, The Queen.

 

Giancarla: Che cosa ci racconti in questo tuo nuovo romanzo?

Elisabetta Bucciarelli: Mi piace dire che “Chi ha bisogno di te” è una storia di crescita, di evoluzione, di iniziazione ai sentimenti non solo di una ragazza di diciassette anni, Meri, ma anche di sua madre, che ha quarantacinque anni e dunque ha un pezzo di vita alle spalle ma ancora molti anni da vivere davanti. Entrambe convivono all’interno di uno spazio cittadino: la mamma cerca di insegnare a Meri una sorta di “grammatica” dei sentimenti e Meri le rimanda quello che ha capito o che sente, e anche i suoi orizzonti, ben più larghi e profondi per via della sua età.

G: Il problema fondamentale di Meri sembrerebbe essere quello dell’innamorarsi perdutamente, chiedendosi anche come mai, visto che è capitato a tutti, a lei non sia ancora successo. Però mi pare che siano le tante forme di Amore che si incontrano nel libro, o – se preferisci – è lo stesso Amore che si declina in maniera diversa, a essere il problema di Meri e di tutti i personaggi, anche quelli  più in secondo piano.

E.B.: Sì, credo sia così. Quello che Meri capisce da subito è che esiste un “obbligo” anche nei confronti dei sentimenti e delle emozioni: ci sono cose che vanno assolutamente provate, sentite, sperimentate, e sembrerebbe esistere un unico modo per accedere a questo dovere sentimentale. Lei sente che si racconta dell’Amore che fa perdere la testa, dimenticare le sofferenze, che mette in uno stato di gioia totale, che fa risplendere il mondo ma, rispetto a questo, si domanda anche se una cosa così annunciata e con queste caratteristiche così definitive non sia soltanto un obbligo, appunto: obbligo sociale e anche obbligo di “sentire come si deve sentire”. Partendo dalla sua domanda, apparentemente ingenua (“Perchè non mi sono mai innamorata?”), Meri scopre le infinite declinazioni e personalità che si possono mettere in campo quando ci si incontra e si prova (o si sente, o si vede) questo fantomatico “Amore”.

G.: L’altro argomento molto presente nel libro e che tu descrivi con leggerezza, benché sia un tema anche di drammatica attualità, è quello della “comunicazione”.

E.B.: E’ vero. Stiamo vivendo trasformazioni fondamentali, epocali: probabilmente il modo in cui comunichiamo le emozioni e i sentimenti è la più grande rivoluzione cui assistiamo in questi anni; i mezzi con cui comunichiamo sono diversi e trasferiscono significati diversi alla nostra stessa comunicazione. In questo momento dobbiamo guardare ai ragazzi, perché in questo campo sono molto avanti e proprietari di segreti che spesso non hanno voglia di svelarci, perché per loro sono cose normali, è un modo consueto di trattare la comunicazione interpersonale: anche con gli adulti. C’è un po’ di schizofrenia nel modo in cui Meri accoglie quei bigliettini scritti a mano: da un lato è stupita per il fatto che qualcuno prenda in mano la penna, scriva e le consegni questi piccoli oggetti, e quindi vorrebbe passare ad una comunicazione più veloce con lo smartphone, una comunicazione che azzeri le distanze; dall’altro, quando riesce ad ottenerla, si rende conto che la concretezza del gesto dello scrivere e del conservare su di un pezzetto di carta lo scritto è qualcosa che resta, mentre tutto il resto è sì veloce, ma anche ordinario, perché nella velocità c’è anche poco pensiero. La contraddizione tra lo scritto sullo smartphone, la voce e il ritorno al biglietto è una sintesi di quello che ci succede quotidianamente quando cerchiamo di “afferrare” l’altro, di entrare in contatto, ma poi questa presenza diventa evanescente, non la vediamo più. Già nel mio libro precedente, “La resistenza del Maschio”, avevo un po’ raccontato questi aspetti. Di controcanto c’è la Madre, che propone i “gesti”, gesti mantrici, ricorrenti, tutti i giorni gli stessi gesti di cura, ma che usa anche la musica e i testi delle canzoni (io ho scelto che comunicasse attraverso quelle dei Queen perché il loro è un gruppo musicale che ben si presta a questo ragionamento), proprio a testimoniare che siamo abituati a parlare con le parole degli altri e non abbiamo il tempo, la voglia, ma forse anche gli strumenti, per costruire un linguaggio nostro. La scuola ci educa all’uniformità di linguaggio, l’università ci specializza: alla fine, abbiamo linguaggi presi a prestito. La somma di tutti questi linguaggi e la riflessione sulle parole dovrebbero aiutarci a trovare una originalità di parola per dire quello che noi sentiamo, non quello che tutti sentono: questo è, secondo me, l’altro punto fondamentale di questa storia.

G.: “La Madre”; “il Padre”: dei genitori di Meri non conosciamo i nomi, come fossero dei personaggi importanti in virtù del loro ruolo familiare, che tuttavia non svolgono in maniera esemplare. Come mai questa scelta?

E.B.: E’ vero: non sono due stereotipi di padre e di madre, ma entrambi cercano di interpretare il loro ruolo, come noi facciamo nelle nostre esistenze. Io non conosco stereotipi, conosco le “facciate”, ma se poi si va a guardare quello che c’è dietro si trovano sempre delle varianti allo stereotipo: come avviene per il “maschile” e il “femminile”, siamo in un momento di confusione. Il Padre dovrebbe essere colui che tiene insieme una famiglia con un lavoro, uno stipendio, una “cura”, un suo farsi carico: senza svelare troppo del racconto, possiamo dire che il padre di Meri ha disatteso una delle più grandi aspettative femminili e materne, quella per cui un uomo non può avere paura. Questo è imperdonabile: una donna può avere paura, un uomo no; certo, da un punto di vista teorico siamo in grado di accettarlo, ma vedere un uomo che ha paura ci spaventa. Di contro, c’è una mamma che cerca di fare la mamma, ma per farlo deve rinunciare a qualcosa: è un fatto naturale, che dovrebbe essere normale per la donna che diventa moglie e poi madre; la madre di Meri ha però dovuto pagare un prezzo troppo alto e quindi, per “tenersi insieme” ha trovato una sua strada, che cerca di comunicare alla figlia, e cioè la strada del rigore, dell’essere sempre ben educata, gentile. Meri tuttavia “sente” che manca qualcosa: questo “sentire” degli adolescenti è per gli adulti una cosa dolorosa, perché sanno che non passano solo le parole e i gesti, ma passa anche altro…

G.: Con queste parole hai già risposto alla domanda che ti avrei fatto  riguardo i ruoli, che fra madre e figlia sembrano quasi invertiti, perché a volte è la figlia che deve, ma anche vuole, accudire la madre, la quale a sua volta certamente ha dei gesti di cura nei confronti di Meri:  eppure pare che la figlia abbia davvero sulle spalle la responsabilità di questa madre un po’ eterea, che racconta cose che la figlia non capisce se siano fatti reali o invenzioni narrative per i testi teatrali che l’altra scrive.

E.B.: Come bene hai detto tu, sembra che a volte Meri debba farsi carico della madre: anzi, a un certo punto lo dice proprio, quando si pone la questione se dipendiamo dalle persone di cui abbiamo cura, o abbiamo cura delle persone che dipendono da noi. Secondo me, è uno snodo della nostra esistenza: una volta messo in chiaro con noi stessi quale sia la nostra strada, tutto poi diventa più semplice: ma è una scelta, non un dovere. Meri si rende conto che per poter accettare le proprie debolezze – e anche le proprie patologie – prima deve vedere le debolezze e le patologie della madre. Spesso (noi adulti) ci dimentichiamo di essere già in una certa maniera, mentre i ragazzi ci vedono, seguono, osservano e fanno loro ciò che noi da tempo abbiamo dimenticato di essere: nello specchio che si fanno le due donne ci sarà la chiave per sopravvivere, ognuna da sola pur con la presenza costante dell’altra. Anche in questo libro parlo di “distanza”, di “misure”: solo nella distanza si può crescere e solo nella distanza si possono veder crescere i propri figli.

G.: In un libro in cui si raccontano le donne (Meri, sua madre, l’amica di Meri, Sara, così apparentemente diversa da lei e pure così simile, la zia di Meri) gli uomini, che pure non mancano, sono in secondo piano. Dal momento che ti avevamo lasciato mentre affrontavi un ampio discorso su di loro sia come Autrice (“La resistenza del maschio”), sia come curatrice di una raccolta di racconti (“L’Uomo Nero”), la domanda è inevitabile: hai sentito la necessità di tornare a parlare delle donne, o questa scelta ti è stata suggerita dai lettori, che sono stati così vicini a te e al tuo lavoro precedente?

E.B.: Questa è una bella domanda: in realtà prima di scrivere questo libro non mi ero posta la questione. Avevo due “maschili” che si muovevano intorno a me e chiedevano di essere raccontati: uno era il tipo cui si faceva riferimento prima, ovvero l’uomo che ha paura, la paura legittima che gli uomini, come le donne, possono provare; l’altra invece, era il maschile che si fa carico dei figli. Ho intorno a me molte famiglie mono-genitoriali nelle quali non sono le donne che hanno in carico i figli piccoli, ma gli uomini, perché anche le donne decidono di andare via e prendere strade diverse da quella che pensavano fosse la loro vocazione o si sono trovate a vivere. Così il padre di Sara, per esempio, alleva la figlia da solo, con tutti i limiti che ne derivano, ed è a sua volta accudito dalla figlia (e, ancora una volta, c’è un “femminile” diverso da quello di Meri: Sara si fa carico di una figura maschile): ma non è una scelta quella di stare da solo, almeno non apparentemente. Raccontare gli uomini in questa doppia veste aveva bisogno di donne protagoniste, cioè che si facessero carico di queste assenze, per cui li racconto a volte mettendoli in primo piano, a volte sullo sfondo. Credo che, in questo caso, la paura da un lato e la distanza e la mono-genitorialità maschile dall’altro avessero bisogno di protagoniste femminili forti in evidenza.

G.: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”: c’è continuità nella tua opera artistica. Anche la copertina del libro, dove appare un insetto particolare, indica continuità con i lavori precedenti perché anche qui, alludendo a un dono di Meri, compare un’ape con una corona. Ma è davvero la continuazione di un discorso iniziato o, invece, è un soffermarsi sul già detto, come a rimarcarlo?

E.B.: C’è continuità: come hai giustamente notato, anche se con una grafica differente e differenti simboli, pure sulla copertina de “L’Uomo Nero” compariva un’ape. Sì, è vero: c’era la volontà di rendere ancora più forte la centralità del microsistema di insetti piccoli, che vivono seguendo regole apparentemente distanti da quelle della nostra società. In realtà, questo è un libro di cose piccole. Meri ha un dono: è sopravvissuta a un incidente che le lascia la capacità di sentire con un super udito, grazie al quale percepisce anche il battere delle ali di una farfalla; la Madre, invece, esercita cure costanti su un vivaio immenso di piante che lei stessa semina, e quindi è a contatto col “micro” (i semi sono fra gli oggetti più piccoli che ci siano fra quelli del libro). Entrambe – ciascuna per la propria ragione – diventano così “regine”: la corona è quella dei Queen, ma potrebbe anche rappresentare la nostra speranza di “coronare” (questo è un verbo bello!) una vita, un percorso di libertà e centralità, indipendentemente da chi abbiamo intorno. Quindi, sì: mi piace pensare che ogni libro richiama il successivo, pur discostandosene, e questo è molto diverso dal precedente “La resistenza del maschio” e anche da “L’Uomo Nero”.

G.: Siamo alla fine della nostra chiacchierata, che non vorrei chiudere in maniera “vigliacca”… ma al tempo stesso ti devo confessare che la madre di Meri, con il suo amore per la musica, i lunghi capelli, la passione per gli alberi e il fatto che scrive per il Teatro, non so, mi ricorda “qualcuno” … Tu puoi aiutarmi a capire chi?

E.B.: … Sì, ti posso aiutare ma, nello stesso tempo no. Mi spiego: tu mi dai la possibilità di dire una cosa alla quale tengo moltissimo :se racconti di una donna dai lunghi capelli, che scrive per il Teatro e ha la passione per le piante, puoi ritrovare, come sto facendo io in una decina di lettrici che mi scrivono, un mondo popolato da donne che decidono nella loro “età di mezzo” (chiamiamola così) di non rinunciare alle chiome lunghe e fluenti, passano il tempo a coltivare bellezza e insieme hanno un confine labile fra ciò che è sogno e ciò che è realtà, come nella metafora della scrittura teatrale della Madre di Meri, che si inventa situazioni ma non capisce più qual è il suo desiderio, quale il suo sogno e quale la storia “finta” messa sulla carta. Questo non basta per sovrapporre un personaggio alla sua Autrice e credo anche che questo sia uno dei miei segnali più forti per dire che noi scrittori possiamo raccontare una storia anche se non c’è la nostra autobiografia. Noi dobbiamo scrivere storie “finte”, dobbiamo inventare mondi e permettere al lettore di trovarli: é inevitabile che in quei mondi ci siano pezzetti della nostra esistenza, perché possiamo scrivere solo di ciò che conosciamo. Purtroppo questa è un’epoca in cui c’è una sorta di “caccia all’Autore”: lo si vuole vedere, si vogliono conoscere la sua biografia e le sue cose private… Più noi scrittori cerchiamo di tenerci distanti, più il lettore è rispettato. Si devono trovare nel racconto elementi vissuti, che però c’entrino con tutti e passino attraverso personaggi che sono distanti da chi li ha inventati: come la mamma di Meri. Quindi, se la domanda era questa, no, lei c’entra pochissimo con la sua Autrice, … purtroppo o per fortuna, perché se così fosse i miei guai sarebbero molti di più!

G.: Ultima domanda: se al titolo del libro, “Chi ha bisogno di te” volessimo aggiungerne un segno di interpunzione, secondo te sarebbe più giusto un punto interrogativo, o meglio i due punti?

E.B.: Vedi, Giancarla, quasi tutti mi fanno questa domanda e così ho dovuto rifletterci bene, perché il titolo è stato scelto istintivamente. In realtà io ci metto un punto fermo, non un punto di domanda, né i due punti, perché c’è un sottinteso, ovvero: “Domàndati chi ha bisogno di te”. Noi non sappiamo davvero “chi ha bisogno di noi”, perché siamo portati a decidere che chi ha bisogno di noi è chi, per imposti doveri familiari o sociali dobbiamo per forza accudire: ma “chi ha bisogno di noi” potrebbe anche non trovarsi all’interno della rosa di persone che identifichiamo come doverosamente dipendenti da noi. Quindi: domàndati chi ha bisogno di te, ma poi pensa che anche tu hai bisogno di qualcuno: e allora, alza la mano e chiedi… perché bisogna anche essere capaci di farlo.

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