5 Marzo 2016

 

Inevitabile per me ricordare oggi Lucio Battisti: lo faccio come si farebbe con un vecchio amico che per decenni ci è stato vicino, ma purtroppo se ne è andato via proprio quando pensavamo che non ci avrebbe lasciati più.

La prima volta che ho sentito la sua voce è stato quando mio padre ha comprato un registratore portatile a cassette: il negozio ci aveva dato in omaggio una mc dimostrativa con quattro brani. “Ma che bella giornata”, “Il vento”, “Prigioniero del mondo”, “Luisa Rossi”: la prima canzone era cantata da Ugolino, la seconda dai Dik Dik, le altre due da uno sconosciuto con una voce tanto anomala che i miei genitori, che amavano Claudio Villa e soci, sentendola storsero il naso (“E’ stonato” fu la loro inappellabile sentenza). Così mi offrii di liberarli dell’oggetto: a me, infatti, quelle canzoni piacevano.

Andavo solo alle elementari, ma già ascoltavo molta musica – forsennatamente, disordinatamente – e, pur senza rendermene conto, desideravo creare una mia “hit parade” personale, visto che da qualche sabato avevo cominciato a seguire quella imperdibile di Lelio Luttazzi. Certo, non sapevo che tre di quelle canzoni erano state scritte da questo tale con la voce un po’ strana e affascinante. Sono andata avanti per alcune settimane a sentire e risentire le sue tre (quella di Ugolino non mi aveva preso e invece, ripensandoci, era quasi un rap e anticipava molti artisti successivi), fino a quando, pochi mesi dopo, seguendo il Festival di Sanremo l’ho visto: quell’immagine è facile da ricordare, perché l’hanno passata cento volte in tivù. Riccioli neri, un imbarazzante fularone al collo al posto della classica cravatta, Lucio arriva sul palco, ci sono applausi, sorrisi e si comincia: parte la chitarra e lui canta rigorosamente dal vivo “Un’avventura”, italico e originale omaggio all’R&B che, fra l’altro, era lì rappresentato iconicamente da Wilson Pickett, suo straordinario partner sanremese (in quell’edizione del 1969 gli artisti italiani cantavano in coppia).

Mentre scrivo, ho in sottofondo il video di quella esibizione e capisco perché, istintivamente, da quella sera Battisti è diventato (e per molti anni, prima cioè di scoprire anche De Andrè, Gaber e Fossati, è restato) il “mio unico” cantante: andatevelo a rivedere e resterete conquistati, e anche un po’ commossi, dall’effetto che la musica fa su questo ragazzo che si dimentica ben presto di partecipare ad una kermesse ingessatissima e comincia a dimenarsi a suon di musica, svisando con la voce e battendo inopinatamente le mani per darsi il tempo.

“La musica nel sangue”: questo aveva Battisti.

Vinsero il festival Iva Zanicchi e Bobby Solo con “Zingara”, ma per Battisti era fatta; da lì in poi, avrebbe inanellato una serie impressionante di centri: “Acqua azzurra, acqua chiara”, “Mi ritorni in mente”, “Dieci ragazze”, “Fiori rosa, fiori di pesco”, eccetera, eccetera eccetera. E faceva centro (anzi, centrissimo) persino con i “lati B” dei suoi 45 giri: di solito sul retro del disco finivano brani considerati minori, ma non c’era mai niente di mediocre fra le sue composizioni, e così mi piacevano anche “Io vivrò – senza te”, “Non è Francesca”, “10 ragazze”, e potrei andare avanti ancora.

Oramai Battisti per me era indiscutibile: stavo crescendo, leggevo un po’ di notizie musicali, capivo che eravamo in tanti ad apprezzarlo e ogni suo primo posto alla “Hit Parade” del sabato mi inorgogliva come fosse stato il mio. Battisti mi piaceva sempre e comunque, anche quando non me lo aspettavo, anche quando le sue canzoni erano cantate da altri e solo dopo scoprivo che ne era l’autore ( “29 settembre”, “Nel cuore, nell’anima”, “E penso a te”, “Insieme”, “Amor mio”, “Io e te da soli”, “Il paradiso”, “Vendo casa”, “La mente torna”, “Eppur mi son scordato di te”, “Amore caro, amore bello” “E’ ancora giorno”, “Io ritorno solo”… e mi fermo, perché anche qui l’elenco sarebbe chilometrico). Per esempio, trovavo un capolavoro (e la penso così ancora oggi) anche una canzone allora poco conosciuta, scelta dal regista Salvatore Nocita per lo sceneggiato Rai “I Nicotera”, “Insieme a te sto bene”. Sulle sue note si snoda una sequenza pazzesca: la figlia sbandata del capofamiglia, in cerca di brividi forti, sale con un ragazzo su una motocicletta e comincia una folle corsa (la citazione, scusate, è d’obbligo). La ribellione di una generazione disadattata era scandita dal blues di Battisti, accompagnato alla batteria da Franz di Cioccio, alla chitarra elettrica da Alberto Radius, all’organo da Dario Baldan Bembo.

Ma l’apoteosi doveva arrivare con “Emozioni”, pubblicato sul “B” di “Anna”: migliaia e migliaia di ragazzi si sono cimentati con l’arpeggio inziale, croce e delizia per gli autodidatti come me che si consumavano i polpastrelli a furia di provarlo e riprovarlo, per fortuna presto rincuorati dal successivo La-mi-re / La- mi- re de “La canzone del sole”, che, appunto, anche agli autodidatti come me consentiva di accompagnarsi per un intero e bellissimo brano schivando il micidiale barrè.

Perché la musica di Battisti era ed è questo: patrimonio universale. E’ di tutti e per tutti, indistintamente.

Gli anni sono passati, le scelte artistiche di Battisti sono cambiate: più di una volta, essendo lui sempre avanti rispetto ai tempi, noi fans siamo rimasti interdetti, salvo poi capire che la ragione stava dalla sua parte. Vale anche per il periodo post- Mogol: i testi mi spiazzavano, ma ascoltando bene scoprivo che Battisti, sotto la forma provocatoria e sperimentale dei suoni sintetici, metteva sempre e comunque la sua firma melodica inconfondibile, come nella struggente “Don Giovanni”, o nella funambolica “Le cose che pensano”, o nella fatalista e bellissima “I ritorni”. La prova del nove: sbucciate le sovrastrutture, semplificate, arrivate al cuore della musica e vedrete che, autodidatti, principianti o professionisti che siate, potrete suonare senza troppa fatica anche queste canzoni.

Insomma: Battisti c’e.

E Battisti nella mia vita c’è sempre stato: come un amico vero, appunto.

Lo so: non ho fino ad ora citato Mogol, ma solo perchè sarebbe servito un altro lunghissimo ragionamento. Posso solo dire che, quando ho avuto lo straordinario e inaspettato privilegio di conoscerlo e intervistarlo, non ho parlato con lui di Lucio: sapevo che Mogol non ama soffermarsi sull’argomento, se non eccezionalmente. Sono sicura che la ragione non stia in una sorta di malanimo nei confronti di Battisti, come qualcuno maligna, anzi sono proprio convinta del contrario. Perché? Perché Mogol, parlando del talento e della creatività, mi ha detto: “Il talento è in tutti, sia pure in misura variabile: si tratta solo di farlo emergere al suo massimo. Però non va confuso con la genialità, che è invece molto rara: per esempio io, nella mia vita, ho conosciuto solo un genio”.

A chi alludeva? Facile capirlo.

E che Mogol abbia davvero amato Lucio lo dimostra il testo che ha scritto sulla musica di Gianni Bella e ha cantato Celentano: così, anche se la mia canzone preferita di Battisti è sempre (e sempre di più) “Il mio canto libero”, se volete capire qualcosa del rapporto fra questi due geni – perché anche Mogol lo è – vi suggerisco di ascoltare “L’arcobaleno”.

E … Lucio: grazie.

G.P.

 

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